DI FRONTE ALLA PANDEMIA:
PRIME CONSIDERAZIONI
di Aldo
Vecchi e Fulvio Fagiani
Nel “numero” di marzo
2020 di Utopia21 dedichiamo solo queste prime riflessioni alla Pandemia in
atto, lasciando invariate le altre parti della “rivista”, non tanto per
valorizzare comunque il lavoro svolto, dalla Redazione e dai Collaboratori ed
Interlocutori, ma anche come segno di fiducia nel futuro.
Un futuro, che sarà
senz’altro diverso da quanto si prospettava poc’anzi, ma in cui dovremo
comunque cimentarci, seppur in termini nuovi, con molti dei temi da tempo
maturi, su alcuni dei quali scriviamo in
questo numero:
-
sia per gli aspetti di metodo (se l’utopia si
oggi possibile/utile/necessaria o in particolare del ruolo di giurisiti ed
intellettuali per un nuovo diritto universale; come si formano pre-giudizi e
stereotipi; )
-
sia per gli aspetti di
merito (comportamenti individuali/stati e mercati/imprese e sindacati a fronte
delle trasformazioni climatiche e socio-economiche: digitalizzazione,
robotizzazione, crescita/consumo di risorse; ma anche soluzioni per il bisogno
di case, nella fattispecie del Portogallo).
Anche per la nostra
attività nei prossimi mesi, non sapendo ancora la portata e la durata della
Pandemia e dei suoi effetti (e ad esempio se il Festival dell’Utopia 2020 potrà
svolgersi a Varese in autunno, come le precedenti edizioni), vorremmo
coltivare, come nostra ambizione, quella di stimolare la progettazione dell’utopia
concreta di un “mondo diverso”: inseguendo da lontano gli esempi di pensatori
ed agitatori che pensarono, anche nel dettaglio, ad un futuro migliore persino
nelle ore più buie del secondo conflitto mondiale, dagli urbanisti inglesi che
con Patrick Abercrombie che immaginarono la “grande Londra” e le NewTowns fuori
dalla corona verde agli antifascisti e federalisti di Ventotene e di Chivasso [1];
così come ai più noti leaders della Resistenza, che insieme ai più umili dei
Partigiani, mentre combattevano, ponevano le premesse, anche teoriche, di
quella grande utopia che è tuttora la Costituzione Italiana.
In questa direzione ci
pare si stia muovendo ad esempio anche l’ASVIS, con il portavoce Enrico
Giovannini: le “unità di crisi” italiana ed europea (che
suggerisco di chiamare “unità di resilienza”) dovrebbero usare un approccio
sistemico al problema, mobilitando le tante intelligenze di cui dispone il
nostro Continente nei vari campi e decidendo i singoli interventi anche in
funzione del futuro che vogliamo costruire, non solo dell’emergenza che
dobbiamo affrontare oggi. Sarebbe un segnale forte per una popolazione
disorientata e spaventata.” 1
La Redazione
DI SEGUITO LE RIFLESSIONI, PRIMA DI ALDO VECCHI E POI DI
FULVIO FAGIANI
L’esperienza, che si profila
pressoché “globale”, della pandemia di “Coronavirus”, porta molti commentatori (o
almeno i più profondi, tra i moltissimi che si esercitano sul tema del giorno) a
pensare che “nulla sarà come prima”.
Oltre al carico
immediato di morti e lutti, di sofferenze e di angoscia per le persone e le
famiglie direttamente colpite (e di stress, e spesso di abnegazione, da parte
del personale sanitario), l’epidemia e le direttive per contrastarla stanno
determinando una gigantesca alterazione negli assetti economici, sociali ed
antropologici dei Paesi coinvolti.
Gli aspetti che mi
preme evidenziare, per porre alcune domande cui tenteremo di ripondere nei
prossimi mesi, sono:
-
il
capovolgimento delle priorità nelle preoccupazioni quotidiane delle persone,
anche quelle non ancora raggiunte o lambite dal virus, sia negli aspetti
materlali (proteggersi dal contagio, assicurarsi cibo, farmaci e cure,
sopperire alla chiusura di asili e scuole, rispetto alle usuali e pur
persistenti necessità di studiare/lavorare, cercare reddito, progettare la
propria vita), sia negli aspetti emotivi (la paura della pandemia, e del
connesso impoverimento economico ed esistenziale, nasconde, se non rimuove, i
timori consolidati – ed anche artificialmente sostenuti - verso gli stranieri/migranti e verso le istituzioni sovranazionali ed i
connessi occulti poteri);
-
la riduzione temporanea
dello “sviluppo” (e purtroppo dell’occupazione, a partire dai lavori più
precari nel commercio/turismo/servizi, ed ormai anche nel cuore del sistema
produttivo manifatturiero) e la compressione obbligata dei consumi (soprattutto
voluttuari), ma non sempre in direzione “ecologica” (ad esempio, per evidenti
motivi, la mobilità residua delle persone, se possibile, opta per i mezzi
privati e non per il trasporto pubblico);
-
la profonda
modificazione dei comportamenti individuali e collettivi, in parte imposta ed
in parte (con difficoltà) interiorizzata[2],
motivata dalla salute pubblica, in un difficile rapporto di fiducia/sfiducia
tra cittadini, esperti ed istituzioni, variamente canalizzato dai mezzi di
comunicazione, vecchi e nuovi (anche qui, se la sobrietà dei consumi si
sovrappone agli obiettivi ecologisti, l’isolamento individuale ne rappresenta
invece l’opposto, perché una decrescita “felice” dovrebbe combinarsi con un
massimo di socialità e di scambi culturali);
-
la sospensione degli
usuali meccanismi nella governance effettiva della “cosa pubblica”, sia pure in
un quadro di formale rispetto delle regole, con indebolimento dei centri di
propaganda politico-mediatici [3],
dei partiti e del Parlamento (e forse dello stesso Governo) ed un rafforzamento
di organi concertativi di raccordo tra Governo e Regioni, tra tecnici
(sanitari) e politici; tra l’altro, con ovvio annichilimento, almeno
temporaneo, di movimenti di base, come le “sardine” o i FFF.
E queste sono le
domande che mi pongo, dopo quella – fondamentale, valida per ciascuno e per tutti – “se, come e quando
usciremo (vivi?) dalla pandemia”:
-
una austerità di questa
portata, anche se più “intelligente”, quale è probabilmente quella necessaria
per affrontare adeguatamente il cambio climatico e la connessa crisi ecologica,
potrebbe essere accettata dalle popolazioni già abituate agli standard di vita
e di consumo “occidentali”? anche se si tratterebbe di una austerità funzionale
ad una “emergenza” meno capillarmente evidente? ed, in particolare, DOPO, la
pesante cura di dimagrimento socio-economico in atto?
-
l’auspicabile
superamento della crisi sanitaria e delle conseguenze socio-economiche (tra cui
l’accumulo di debiti pubblici e privati) determinerà inevitabilmente una
richiesta corale di rilancio “tal quale” del precedente (e vigente) modello di
sviluppo “tecno-capitalista” (pur azzoppato materialmente nella sua dimensione
globalista), oppure i frammenti di
solidarismo necessari per contrapporsi alla pandemia (comportamenti
disciplinati, concordia istituzionale, credibilità degli esperti, carattere
pubblico della sanità, centralità della spesa pubblica, caduta temporanea dei
tabù ordo-liberisti) potranno essere valorizzati per costruire una alternativa?
Aggiungo poche note a
quanto scritto da Aldo Vecchi, perché penso anch’io che la pandemia in corso
avrà effetti duraturi sul nostro modo di vivere, sia nel sistema delle
percezioni individuali che, ancora di più, nelle forme della vita collettiva.
Non possiamo sapere
oggi quali saranno tali effetti, possiamo solo avanzare ipotesi o, meglio
ancora, porci domande.
E tuttavia una cosa
almeno è certa, l’epidemia ha mostrato quanto sia instabile il nostro vivere e
quanto sia soggetto a mutamenti repentini.
Nella vita delle
generazioni del dopoguerra penso sia un caso assolutamente unico: neanche le
‘domeniche a piedi’ del 1973, che i meno giovani ricordano, avevano avuto un
uguale impatto sulle vite quotidiane. Non c’erano decessi, né pericoli per la
salute, e l’eccezionalità era riservata solo ai giorni festivi, nei feriali la
vita scorreva come sempre.
C’insegnerà ad uscire
dall’immediatezza e a scrutare l’orizzonte per percepire rischi e pericoli?
Saremo capaci di comprendere che l’esercizio della premonizione e della
precauzione non sono un fastidio che guasta la buona vita, ma sono la precondizione
stessa della buona vita? Capiremo che la natura non è argilla inanimata in
attesa di essere plasmata, ma un complesso sistema vivente da conoscere e
rispettare?
Se si, quel clima di
condivisione e mobilitazione pubblica che finalmente vediamo in questi giorni,
si trasferiranno su altre emergenze, quella climatica e ambientale
innanzitutto?
Mai come in questi
momenti riscontriamo quanto aspirazioni individuali e responsabilità pubblica
non coincidano affatto, e come il nostro stesso benessere individuale dipenda
dal senso di responsabilità di tutti gli altri e dalla coerenza dei
comportamenti.
Mi sorprende in questi
giorni vedere le strade vuote e sentire commenti assennati e partecipi: è un
patrimonio di civismo riaffiorante che conforta e alimenta speranze. Non è vero
che siamo solo egoisti, auto-interessati, vanesi e narcisi. Tante persone
dimostrano di riconoscere un dovere civico e di doverlo condividere, non per il
timore di sanzioni, ma per intima convinzione.
Vuol dire che non c’è
una natura umana immutabile e odiosa, ma anche una riserva di solidarietà e
identificazione collettiva, con cui affrontare drammi comuni.
Gli episodi di
esasperato individualismo ci sono stati, come ricorda Vecchi, ma li ho
interpretati come limitati e frutto di una comprensione ancora parziale.
Improvvisamente
scopriamo che il bene pubblico della salute sa ispirare anche il sacrificio di
beni privati, ritenuti irrinunciabili, come la libertà di muoversi e decidere
il flusso della propria vita.
Chi mi legge su
UTOPIA21 sa a quali obiettivi vorrei che queste attitudini s’indirizzassero,
estendendo il loro campo d’azione.
Se scopriamo che la
natura va compresa e rispettata e che non siamo soli nel crederlo, ma lo
condividiamo con altri e da queste convinzioni ci facciamo guidare, quegli
obiettivi che ora sembrano un sogno irrealizzabile, forse possono essere
ottenuti.
Intravedo un altro
insegnamento da questa contingenza.
Dopo l’iniziale
scatenamento delle opinioni in libertà, in cui molti, privi di alcun titolo,
hanno indossato i panni dell’esperto e discettato sulle soluzioni, iscrivendosi
ora al partito dei prudenti ora a quello degli irridenti, non lesinando
critiche feroci a destra e a manca, ho colto, con il crudo manifestarsi
dell’emergenza grave, il prevalere di una maggiore sobrietà.
Basta partito preso,
basta certezze inoppugnabili, basta arringhe. Anche gli esperti chiamati a
spiegare hanno esposto i molti fatti ignoti, l’impossibilità di predizioni
certe, il dover inseguire la conoscenza giorno per giorno e dato su dato.
Persino gli esponenti
politici, con le immancabili eccezioni, si sono silenziati per far posto al
ruolo delle istituzioni e a quello, mai come in questo caso necessario, degli
specialisti.
Si è forse anche capito
che le buone decisioni non sono il frutto del taglio netto del capo solo al
comando, ma il frutto faticoso del confronto tra competenze e responsabilità
diffuse.
Di fronte al
coronavirus gli slogan possono poco, le sparate irose, che non sono mancate e
non mancheranno, servono a nulla.
Il cammino prudente,
incerto, la valutazione ponderata, la trasparenza argomentata sono i soli
strumenti su cui si può realmente contare.
Chissà se, a cose
fatte, avremo capito che ci sono patrimoni indispensabili, come la sanità, la
formazione e la ricerca, che vanno costruiti pezzo su pezzo, mai lasciate a se
stesse, mai sacrificate per un po’ di beni di consumo in più, o per onorare
promesse elettorali a questa o a quella categoria. Che, inoltre, sono un bene
pubblico primario, su cui investire con tenacia, che sollecitano dedizione non
motivata da premi monetari, ma più spesso dal senso del dovere, come stiamo
vedendo.
Dalle crisi e dalle
emergenze si può uscire bene o male, imparare o dimenticare, migliorare o
peggiorare. I prossimi mesi ci diranno.
fulviofagiani@gmail.com
Fonti:
1.
Donato
Speroni - EVITIAMO IL RIPETERSI DELLE “TEMPESTE PERFETTE” - news letter dell’ASVIS, 13 marzo 2020 https://asvis.it/in-evidenza-nella-settimana/230-5238/questa-settimana-evitiamo-il-ripetersi-delle-tempeste-perfette-
2.
Stefano
Levi della Torre – QUALCHE CONSIDERAZIONE SULLA STORIA IN CORSO” http://www.razzismobruttastoria.net/2018/07/26/qualche-considerazione-sulla-storia-corso-stefano-levi-della-torre-giugnoluglio-2018/
[1]
La Dichiarazione dei rappresentanti delle
popolazioni alpine, meglio conosciuta come Dichiarazione (o Carta) di Chivasso,
è un documento firmato il 19 dicembre 1943 a Chivasso, durante un convegno
clandestino organizzato da esponenti della Resistenza delle valli alpine. Venne
scelta la cittadina piemontese perché a metà strada tra coloro che provenivano
dalle valli valdesi ed i valdostani (da Wikipedia).
[2]
Ad esempio, in ambito milanese, si fatica a riconoscere, nella disordinata
disobbedienza dei persistenti fenomeni di movida giovanile in barba al
“coprifuoco” (fino all’inizio di marzo)
oppure nell’affannoso “ritorno a casa” dei fuori sede la sera del 7
marzo) l’eco del pazientissimo popolo degli utenti dell’EXPO 2015, benchè in
gran parte socialmente coincidenti; tuttavia nell’insieme sembrano prevalere
atteggiamenti consapevoli o addirittura solidali, in controtendenza rispetto
all’andazzo preesistente, almeno come rappresentato dei media
[3]
Richiamando
Stefano Levi della Torre 2, che citava Carl Schmitt “sovrano è chi
decide dello stato d’eccezione” e
lo parafrasava: “sovrano è chi sa
decidere dell’ordine del giorno”, mi pare che in questa fase di emergenza
“sovrano è il Virus” e quindi, con la sua “Corona, toglie spazio ad ogni altra
sovranità, compresa quella dei sovranisti
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