venerdì 26 giugno 2015

PERMAFROST ASTENSIONISTA

Il calo di consensi a Renzi ci risparmia una nuova cavalcata di opportunisti che convergono al centro, ma, purtroppo, toglie speranze riguardo ad una profonda ristrutturazione del centro-destra post Berlusconi, così come ad una effettiva maturazione del dibattito alla base del M5S, processi che un proseguire dei successi renziani forse avrebbe innescato: su entrambi i fronti viene premiata ancora la propaganda, con svariate aggravanti nel caso di Salvini.

Mentre la platea degli elettori attivi si restringe, e sul tendenziale 50% congelato nell’astensione inutilmente i vari pretendenti accampano diritti territoriali (come nelle mappe dell’Antartide, diviso a fette dalle potenze che non riescono nei fatti a possederlo), che spazio e prospettive restano per chi sta a sinistra di Renzi  (e ipotizza nuovi soggetti), oltre a far perdere Renzi?
Fatti salvi i tempi, a mio avviso necessariamente geologici, di una “coalizione sociale” (anche oltre Landini), che si traduca in un nuovo magma, capace di sciogliere anche il “permafrost”* astensionista.

*Da Wikipedia:  Il permafrost, o permagelo, è un terreno tipico delle regioni dell'estremo nord europa dove il suolo è perennemente ghiacciato (non necessariamente con presenza di masse di acqua congelata). Convenzionalmente con questo termine si indica un terreno ghiacciato da almeno due anni.


REDDITO MINIMO GARANTITO IN EUROPA (MA NON IN ITALIA): “CONTRO LA MISERIA” DI GIOVANNI PERAZZOLI

Il testo di Giovanni Perazzoli “CONTRO LA MISERIA – viaggio nell’Europa del nuovo welfare” (Editori Laterza,  Bari 2014, pagg. 150) costituisce una valida panoramica del welfare europeo sul fronte della  disoccupazione, con excursus storici a partire da Bismarck (Germania fine Ottocento: impostazione assicurativa-corporativa, limitata alla perdita del posto di lavoro per le singole categorie) a Beveridge (Gran Bretagna metà Novecento: universalità e permanenza dei sussidi, a sostegno di una sostanziale piena occupazione), senza dimenticare  il ruolo delle concessioni di tipo social-democratico nella sfida tra Occidente e blocco sovietico.
La rassegna di Perazzoli entra nel dettaglio delle soluzioni adottate dai principali paesi del nord-europa (Francia compresa), accomunate da alcuni capisaldi sostanzialmente costanti:
-          l’universalità e la permanenza (o ripetibilità), come già accennato, con offerta di sussidio a tutti i cittadini maggiorenni privi di reddito (a fianco di sistematiche sovvenzioni per gli studenti, non indagate dal testo);
-          l’affiancamento con altri specifici canali di sostegno, per la casa, la salute, i figli ed altri specifici bisogni;
-          l’intervento attivo di agenzie per la formazione ed il collocamento.
Pensate all’origine come intervento massiccio ma collaterale, nel contesto di tendenziale piena occupazione tipico del periodo post-bellico, tali politiche hanno subito revisioni e restrizioni nelle recenti fasi di crisi:
-          per la difficoltà a far fronte alla spesa complessiva,
-          per la minor efficacia del reddito minimo come incentivo alla ricerca del lavoro in un mercato che offre spesso sotto-salari,
-          per il crescente dissenso di tali misure a favore dei disoccupati (e peggio se immigrati) tra altri strati di lavoratori ed imprenditori impoveriti;
da qui le esperienze tedesche dei “mini-job” e quelle inglesi di rafforzamento degli obblighi ad accettare i lavori offerti; l’Autore evidenzia però la  sostanziale permanenza del sistema di welfare consolidato e la sua attuale efficacia, anche come stimolo alla affermazione individuale per i soggetti interessati, che solo marginalmente risultano rassegnati ad approfittare a lungo della condizione di assistiti.

Perazzoli richiama  anche, seppur non in modo sistematico, le diverse correnti ideologiche che attraversano la pratica del reddito minimo garantito nord-europeo, e che mi sento di riassumere come segue:
-          liberale: sostegno al lavoro “vero” e alla produttività aziendale; scommessa sull’iniziativa individuale degli assistiti; funzionalità del mercato del lavoro coniugata alla flessibilità dei lavoratori;
-          socialdemocratica: inclusione e universalità; socializzazione delle fluttuazioni settoriali; spinta indiretta alla crescita dei salari minimi per gli occupati;
-          teorici della “fine del lavoro” e sostenitori del “reddito di cittadinanza” (esteso teoricamente anche ai ricchi, salvo recuperarlo con maggiori tasse), tra Pierre Rosanvallon e Ulrich Beck (e ci aggiungerei Guy Standing), i quali in sostanza sostengono che il settore produttivo, ad alta produttività, può e deve farsi carico di tutto il resto della baracca, che comunque gli è necessaria per il consenso e per una più ampia “produttività sociale”;
oltre ovviamente ad una opinione pubblica reazionaria che semplicisticamente ritiene necessario tagliare il più possibile i sussidi “ai fannulloni”.

In contrappunto al (nord)Europa, Perazzoli tratteggia la diversa vicenda italiana, con i successivi fallimenti della commissione Aragona nel dopoguerra, della commissione Onofri (a metà anni ’90, 1° Governo Prodi) e del dossier Biagi (primi anni 2.000, governo Berlusconi) e – a mio avviso senza i necessari approfondimenti sulla concomitante assenza o carenza di reddito garantito anche in Grecia, Spagna e Portogallo e parte dell’Est-Europa – attribuisce le ragioni di tali insuccessi ad un mix di fattori sociali: il familismo, il corporativismo ed il clientelismo portano a conservare la discrezionalità  nelle erogazione dei sussidi (in opposizione alla universalità) come elemento di forza del sistema di potere (e dei partiti in particolare), alimentando fenomeni assistenziali, quali le pensioni di invalidità (anche ad alcuni validi), i lavori finti, gli aiuti per i “poveri”, la cassa integrazione da decidere di volta in volta, la permanenza dei giovani nelle famiglie di origine, fenomeni che ben si  intrecciano anche con la pratica del lavoro in nero.
Un sistema vischioso, che appare insuperabile, e che Perazzoli vorrebbe scardinare con l’universalità del reddito minimo garantito.

I MIEI DUBBI IN PROPOSITO

Per parte mia non ho dubbi sulla preferibilità del modello nord-europeo rispetto alla attuale situazione italiana, ma ho qualche dubbio sia sulla esportabilità del modello in Italia (1), sia su alcuni aspetti intrinseci del modello di welfare proposto (2-3-4):
1-      se in Italia (come in altri paesi mediterranei) gli attuali sussidi coesistono con il lavoro in nero (che nel contempo a mio avviso gonfia oltre il credibile le statistiche dei giovani che “né studiano né lavorano”), come potrebbe invece il reddito minimo garantito ed universale escludere di affiancarsi di fatto anch’esso al lavoro in nero?
2-      Il mondo delle aziende produttive deve essere considerato come un ambito superiore, dove tutti (gli inclusi) si realizzano in serenità e pace (e che può esternalizzare come tasse i costi del mantenimento degli esclusi tramite welfare)  oppure comunque genera conflitti e disagi (competitività, super-lavoro, stress) che in una più equa ripartizione del lavoro potrebbero stemperarsi a vantaggio di tutti (i già inclusi e gli includibili), sia con progressive riduzioni degli orari e contratti di solidarietà (e staffette giovani/anziani), sia internalizzando parte del welfare e cioè ponendo a carico delle aziende quote di assunzioni “sociali” (come in parte già avviene con i disabili)?
3-      le esperienze di ripartizione sociale del lavoro fuori dalle aziende, cioè nel settore pubblico e nel “terzo settore”, come i “lavori socialmente utili” ed  il servizio civile, sono da considerare “assistenzialisti”, mentre l’erogazione di sussidi universali, senza chiedere contropartite in lavoro (ed in parallela seria frequentazione di corsi formativi), non lo sarebbe
4-      stanti le difficoltà della finanza pubblica, se si trovassero le risorse per allargare progressivamente le indennità di disoccupazione, perché non coniugare questa spesa sociale con l’enorme fabbisogno arretrato di manutenzione gestione dei beni comuni (territorio, ambiente, beni culturali)?

Il tema, che ho già affrontato recensendo “Precari, la nuova classe esplosiva” di Guy Standing, è assai complesso, ed intendo ritornare ad affrontarlo, soprattutto riguardo alla separatezza tra lavoro produttivo e “beni comuni”: a mio avviso anche la produzione deve essere considerata un “bene comune” e mi pare che ci sia qualche cenno nella Costituzione (articoli 1,  42 ed altri). 

GOVERNARE IL CONSUMO DI SUOLO? IL SAGGIO DI GIUDICE&MINUCCI E LA RICERCA EUROPEA OSDDT-MED

Su questo argomento pochi mesi addietro ho recensito il “Rapporto 2014” del Centro di ricerca sui Consumi di Suolo (più recente ed anche più esaustivo), e sono in attesa di conoscere gli atti del convegno tenuto a Milano nello scorso maggio 2015, a cura dell’istituto ISPRA (Ministero Ambiente) in collaborazione con “Salviamo il Paesaggio”.

Il testo “Governare il consumo di suolo” di Mauro Giudice e Fabio Minucci edito nel 2013 da Alinea editrice di Firenze (pagg. 133) è distribuito insieme con il volume “Il consumo di suolo dalla Provincia di Torino all’arco Mediterraneo” (sempre a cura di Giudice e Minucci, pagg. 69), che riassume la ricerca europea “OSDDT-MED”, ed insieme costituiscono  una buona panoramica sulla questione suolo, da un ottica tipicamente INU/Poli Torino (purtroppo la lettura è talora disturbata dai numerosi refusi, insoliti per l‘editore Alinea e contrastanti con la valida impaginazione e presentazione grafica di ambedue i libri).

Il primo testo, che chiamerò “volume 1”, è più teorico e di inquadramento generale, anche se a mio avviso talvolta un po’ verboso e non stringente.
Nelle parti introduttive si occupa in prevalenza di:
-               Percezione e misurazione (e comunicazione) del fenomeno del consumo di suolo;
-          Connessione tra consumo di suolo e limiti delle risorse (alimentari, energetiche, ecc.), riportando, senza approfondirli, i tentativi di calcolo della cosiddetta “impronta ecologica” (la superficie di suolo pro capite mediamente necessaria per l’insieme dei consumi e degli smaltimenti);
-               Frammentazione fisica e istituzionale, che favorisce il consumo di suolo;
-        Norme sulla finanza degli enti locali, che incentivano le nuove costruzioni, alimentando la spesa corrente con gli oneri di urbanizzazione;
-              Dialogo volontario tra le regioni del nord-Italia (dialogo a mio avviso sopravvalutato nei suoi effetti)
Nella parte più narrativa non si comprende bene, a mio avviso, il perché delle tendenze della “città post-fordista” allo spreco di suolo e allo “sprawl” extra-urbano, e della difficoltà a realizzare “città attraenti” (funzionali anche alla concorrenza virtuosa tra territori): la frammentazione istituzionale, i costi di insediamento (vedi volume 2) e la finanziarizzazione del mercato immobiliare mi sembrano cause insufficienti per un fenomeno così globale, in cui entrano a mio avviso fattori antropologici e sociologici qui non indagati, e che prendono la mosse dalla stessa città fordista, quando gli operai, oltre a produrre automobile, cominciano anch’essi a possederle e ad usarle  (ovvero: perché ha successo di mercato la città diffusa?)

Seguono nel “volume 1” contributi  concreti sulla situazione e sulle iniziative delle regioni italiani più sensibili all’argomento, che riassumo brevemente:
-          Piemonte (autore lo stesso Giudice): contiene fondate critiche all’intero ciclo della vita effettiva della legge regionale 56/77, che il buon padre Astengo aveva pensato per tutelare il suolo, fino all’ultima revisione, positiva ma non cogente;
-          Lombardia (autore Andrea Arcidiacono - vedi “Rapporto 2014”): illustra le analitiche campagne di misurazione condotte in Lombardia e le finora scarse conclusioni operative contro il consumo di suolo (senza poter arrivare alla recentissima apposita legge regionale, la prima in Italia, che però fa salve ed addirittura “blindate” tutte le previsioni di espansione dei vigenti piani comunali) ;
-          Veneto (autrice Laura Fregolent): focalizza  le tendenze allo spreco di suolo sull’asse padano Verona-Treviso e l’insorgere di conflittualità sociali sugli ulteriori progetti rilevanti di insediamento e infrastrutturazione;
-          Emilia Romagna (autrice Graziella Guaragno, funzionaria regionale):  esamina i risultati assai parziali della Legge Regionale del 2000 e dei conseguenti PTCP provinciali (rallentamento ma conferma dei meccanismi espansivi) ed illustra le nuove migliori intenzioni della legge del 2009 e del Piano Territoriale Regionale del 2010 (interessante l’attenzione alle “città effettive”), mentre ci si interroga sul divenire dei necessari “piani di area vasta” vista la riforma nazionale che semi-abolisce le Provincie;
-          Toscana (autrice: Chiara Agnoletti): evidenzia l’inerzia delle tendenze alla espansione urbana nei piani comunali, malgrado il succedersi di leggi regionali che invitano i comuni stessi a contrastarla (l’articolo non prende ancora  in esame il recentissimo Piano Paesaggistico Regionale ed i suoi sperabili effetti in materia).
Il tratto comune a questi rendiconti regionali è la constatazione che forse si inizia a predicare bene (cambiando lingua comunque ad ogni confine di regione), ma ovunque si fatica a smettere di razzolare male.

Nella parte finale del “volume 1”, più programmatica, a partire dal concetto che la limitazione del consumo di suolo può derivare solo da un insieme articolato di azioni, e non solo da puri vincoli normativi e settoriali, gli Autori illustrano strumenti e strategie, tra cui (riassumo in parte con parole mie):
-          Provvedimenti legislativi nazionali, intersettoriali (riassetto enti locali, economia, agricoltura)  coordinamento tra le regioni;
-          Aggregazioni intercomunali e piani di area vasta (per superare confini artificiosi e perniciose concorrenze campanilistiche), con vera ed efficace Valutazione Ambientale Strategica, da cui derivare la verifica del carico ambientale di ogni scelta insediativa;
-                 Idonea  fiscalità “di scopo”, con la sostanziale avocazione delle plusvalenze immobiliari alla finanza pubblica;
-             Pianificazione integrata, con priorità alla manutenzione del territorio, alla rigenerazione urbana ed agli interessi pubblici e non in rincorsa agli investimenti privati;
-                  Sviluppo partecipato della conoscenza delle problematiche ambientale e della tutela del suolo

Il “volume 2” (“Il consumo di suolo dalla Provincia di Torino all’arco Mediterraneo”) ha un taglio più  pratico e racconta il progetto europeo di ricerca OSDDT-MED (acronimo che significa: occupazione del suolo e sviluppo durevole del territorio sull’arco mediterraneo).

La parte iniziale del testo espone le tendenze al consumo di suolo a scala europea e contiene un approfondimento sulle tendenze in atto nella provincia di Torino (ed in particolare nelle aree pianeggianti e di prima collina), esprimendo preoccupazione per i dati medi di consumo di suolo fino al 2006, poi attenuati (vuoi per la crisi, vuoi per più virtuose politiche, consolidate successivamente dal nuovo PTCP provinciale del 2009-2010), ma anche per le residue previsioni dei piani comunali vigenti, che non saranno però cancellate né dal “PTCP2” né dall’ultima versione della legge regionale “tutela ed uso del suolo”

La parte centrale del “volume 2” descrive gli indicatori quantitativi sperimentati dai vari partner internazionali del progetto, che risultano più raffinati che non  la semplice quantità di consumo del suolo, la sua dinamica temporale e la media pro capite, perché includono:
-          La articolazione per suolo fertile, per fasce altimetriche, per incidenza su aree a rischio idro-geologico, a rischio di incidenti, oppure variamente soggette a tutela
-          Indicatori di dispersione (sprawl)
-          Indicatori di frammentazione: per infrastrutture lineari, per “fattore di forma” degli abitati (rapporto perimetro/superficie, che premia le forme compatte, a mio avviso però con un notevole schematismo rispetto alla concretezza delle geografie e delle storie)


Al termine del “volume 2” sono esposte alcune indicazioni programmatiche, simili in gran parte a quelle del “volume 1” (tra cui: una effettiva conoscenza eco-sistemica del territorio; concertazione e partecipazione; progettazione integrata multi-criteri), tranne la rivendicazione di un quadro normativo superiore, che qui assume scala continentale (direttiva europea), anziché solo nazionale, e quella di adeguati incentivi finanziari agli enti locali interessati alla nuova pianificazione, che forse nella situazione italiana suona troppo ottimistica.

venerdì 12 giugno 2015

CHI SIMPATIZZA DAVVERO PER L‘USCITA DALL’EURO


Non ho visto comparire né su la Stampa né su Repubblica digitale, bensì solo sul TG3, la notizia che il Movimento 5 Stelle ha concluso (a quota 200.000 adesioni) la sua campagna di raccolta firme per una proposta di legge di iniziativa popolare che consentirebbe di promuovere un referendum sull’uscita dell’Italia dall’Euro.
Una iniziativa molto indiretta e alquanto improbabile (quasi nessun altro in Parlamento voterà la legge, a mio avviso anche di dubbia costituzionalità, visti i limiti costituzionali vigenti in materia di referendum e trattati internazionali) e però inizialmente molto strombazzata dal M5S, che nei mesi successivi  - a raccolta firme aperta- hanno scelto di cavalcare altre iniziative propagandistiche, meno astratte, come il reddito di  cittadinanza.
La notizia a mio avviso invece c’è e merita un minimo di approfondimento, per il numero delle adesioni: 200.000 firme, poco oltre il limite di sicurezza per il deposito della proposta e molto al di sotto delle potenzialità del M5S, che viaggia sui  milioni di voti e sulle decine di centinaia di migliaia di frequentatori del blog di Grillo (al di sopra del numero dei “cittadini” abilitati alle consultazioni del movimento – una sorta di non-iscritti al non-partito - , ma solo perché questa lista permane volutamente  bloccata e preclusa ai nuovi non-iscritti per evitare sorprese ai fondatori del M5S).
I parlamentari M5S, nel presentare in TV i (pochi) scatoloni con le firme, hanno motivato l’operazione, differenziandola da un semplice disegno di legge del loro gruppo parlamentare, con la volontà di raccogliere adesioni al di fuori dei loro elettori, dimostrando invece di averne raccolte poche all’interno:
-           o perché l’iniziativa è apparsa intrinsecamente debole e astrusa, anche a chi non simpatizza con l’Euro

-             oppure perché l’Euro ha pochi simpatizzanti, ma l’uscita dall’Euro, finora, di simpatizzanti ne ha ancora di meno. 

COALIZIONE SOCIALE: SPERANZE E PROBLEMI

Ho letto e apprezzato il documento di convocazione dell’assemblea nazionale  di www.coalizione-sociale.it, e ritengo che quello proposto da Landini, Rodotà&C., cercare di far crescere iniziative su temi concreti, sia il metodo più serio per promuovere una eventuale ed auspicabile alternativa di sinistra, per dare risposta a chi si trova socialmente spiazzato dallo sviluppo e dalla crisi del neo-liberismo.
Cercando di uscire dalle consunte retoriche post-comuniste e senza fregole elettorali a breve termine: si sfugge così per ora anche al dilemma se si intenda innanzitutto “far perdere il PD” (in considerazione del rilevante peso che oggi hanno altre alternative, ben dentro il consenso popolare, a destra verso Salvini e “né a destra né a sinistra” con il M5S).

Belli anche molti temi, sul lavoro, i beni comuni, gli spazi pubblici, la casa, la città e l’ambiente  come diritti. 
 
Ci vedo anche molti PERO’, problematiche insite in una galassia movimentista, per ora senza altre regole che non il confronto democratico-assembleare (e con l’ombra di una leadership incarnata dal dirigente ufficiale di un sindacato di categoria, la FIOM, dove non tutti gli iscritti forse si sentono rappresentati in queste scelte di campo).

Espongo pertanto alcuni di questi dubbi (anche sulla scorta di una personale riflessione sui movimenti degli anni 60-70 del secolo scorso):

1 - Oltre ai richiami alla Costituzione, esiste un ragionamento sugli strumenti di lotta, sulla non-violenza, sulla legalità oppure sulla eventuale e consapevole effrazione della legalità? Non mi preoccupano le curiose presenze tra il pubblico di Scalzone e Piperno, quanto la popolarità in parte dei movimenti antagonisti di posizioni come quella di Erri De Luca sulle azioni di sabotaggio  in area NoTAV, che scontano l’assenza di una maturazione sul concetto di disobbedienza civile: a mio avviso l’esperienza dei movimenti non-violenti (Gandhi, Mandela, M.L. King) deve portare chi lotta, anche violando a viso scoperto la legalità, alla accettazione delle conseguenti sanzioni, in attesa ed in mancanza di una diversa legittimazione (che può venire solo dall’effettivo consenso di massa e non dalla autoreferenzialità delle avanguardie, ovvero dall’antagonismo con il casco ed il passamontagna).     
2 – C’è una analisi condivisa sulla gerarchia delle contraddizioni, su chi è il “nemico principale”?  Se il nemico da battere è il “finanz-capitalismo”, bisogna stare attenti a non confondersi con altri suoi nemici a parole, come il nazionalismo sciovinistico (da LePen a Salvini-Meloni); a mio avviso ad esempio non si può arrivare a concludere che comunque Renzi è peggio di tutto, Berlusconi&C. compresi. 

3 – Tutto ciò che si agita è buono? Non ne sono convinto: ad esempio nelle proteste dei professori ci vedo molto corporativismo (come ho già illustrato in altro testo) e non li vedo lottare, in sostanza, né per l’estensione dell’obbligo scolastico, né per l’ampiamento del diritto allo studio.

4 – L’insieme delle potenziali lotte per i diritti è coerente, al suo interno?   Oppure anche i diritti talora confliggono tra loro (non solo contro il neo-liberismo) – ad esempio tra lavoro, ambiente, casa, mobilità – e quindi vanno fin dall’inizio studiate regole per governare tali conflitti “in seno al popolo”?


5 – La sommatoria delle lotte risulta congruente, all’esterno, con un potenziale consenso maggioritario, necessario per una trasformazione non-violenta del sistema neo-liberista? Oppure, avallando i movimenti, si rischia talora di acuire contraddizioni con esiti controproducenti (ad esempio, che effetti avrebbe un referendum sul Job Act nell’ipotesi non remota di una sconfitta, come già accadde sul tentativo di estensione dell’art. 18 alle piccole aziende)?

DOPO LE REGIONALI

Ho letto e apprezzato molti commenti e analisi sui risultati delle regionali (tra i più esaustivi, come spesso, Ilvo Diamanti), cosicché ho ritenuto superfluo aggiungere altre parole.
Userei, come riassunto le seguenti pacate e precise considerazioni di Giuliano Pisapia (intervista a Repubblica del 4 giugno):

“Per una parte dell'elettorato, anche di centrosinistra, ha contato certamente lo spirito di rivalsa nei confronti di Renzi. Hanno perso tutti: il Pd oltre 2 milioni di voti rispetto al 2014, il Movimento 5 Stelle ha preso circa il 60 per cento dei voti in meno rispetto alle Politiche. Le liste di sinistra che non si sono presentate all'interno della coalizione di centrosinistra hanno avuto risultati ben al di sotto delle aspettative. L'unica vera vincitrice è la Lega, ma ha cannibalizzato Forza Italia e quindi non ha portato alcun valore aggiunto al centrodestra. Il dato più preoccupante, per tutti, è quello dell'astensionismo ".

"In Liguria hanno sbagliato in molti. Sia chi ha insistito su un candidato divisivo, convinto che si può vincere e governare da soli, sia chi, dopo la sconfitta alle primarie, è uscito dal partito - ma non dall'europarlamento  -  ritenendo che il Pd fosse il nemico da sconfiggere, regalando così la regione alla destra. Neppure De Gasperi governò da solo: politica è anche la fatica del dialogo per trovare soluzioni condivise e quindi più realizzabili. Trovare un accordo nel proprio schieramento sui problemi da risolvere rende più forti, non più deboli.”

Non mi pare che Renzi voglia ascoltare più di tanto questo saggio consiglio.
E’ apparso appena un po’ scosso (“campanelli di allarme”) e forse sentiremo un po’ meno di propaganda enfatica sul consenso al 40% e le 10 regioni vinte su 12 (a rate, di cui l’ultima assai scarsa…), ma mi pare che nel Renzismo resti prevalente la vocazione a cercare lo sfondamento o anche solo l’erosione verso il centro, attraverso le tattiche più diverse (con Marchionne e con Verdini), dando per scontato che l’elettorato di sinistra alla fin fine non troverà alternative e vorrà evitare di cedere l’Italia a Grillo o a Salvini.

Il che è ancora possibile, se l’alternativa è il movimento “Possibile ” (il cui simbolo, con i segmenti di “uguale” bianchi su fondo rosso assomiglia alquanto ad un cartello stradale  di “doppio senso vietato”, e forse lancia il messaggio subliminale che in realtà è IMPOSSIBILE, qui “NON Podemos”), oppure esterofilie come “Human factor”, che preludono forse, dopo la lista Tsipras-Spinelli, ad una lista “Demirtas” (dall’omonimo leader curdo).

Mentre la linea movimentista della “Coalizione sociale” di Landini (di cui scriverò a parte) richiede giustamente tempi lunghi.

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Ancora su Renzi: mentre il PD dimostra tutti i suoi limiti, dall’assenza sulla riforma della scuola ai frequenti coinvolgimenti giudiziari, dalle primarie sgangherate fino  alla scarsa efficienza addirittura come comitato elettorale, continua a mancare qualsivoglia proposta di riorganizzazione del partito (e delle primarie) in qualunque dimensione, solida liquida o gassosa, e quindi permane, mi sembra, come un’accozzaglia di vecchio apparato (in disfacimento) e nuove clientele che avanzano.

Il che mi sembra pericoloso per tutti (anche per chi è da sempre, da molto o da poco fuori dal PD).

domenica 7 giugno 2015

“ARMI, ACCIAIO E MALATTIE” NELLA STORIA MONDIALE DI JARED DIAMOND

Non ricordo più da dove ho tratto la segnalazione di questo libro che risale al 1997 (nel 1998 premio Pulitzer, e traduzione italiana presso Einaudi, pagg. 366, con il sotto-titolo “Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila  anni”), ma l’ho trovato attuale e interessante, anche se forse le scienze specialistiche su cui si appoggia (archeologia, linguistica, genetica, ecc.) hanno compiuto ulteriori importanti acquisizioni nei successivi diciotto anni.
Sono materie abbastanza lontane dalle mie abituali letture dirette, ma per ricostruire uno scenario di insieme in tali campi mi avvalgo, per interposta persona, dei più vari interessi culturali di Anna, mia moglie e compagna di vita culturale; imitando, nel mio piccolo, lo stesso Diamond, che – laureato in medicina, come il padre, e divenuto ornitologo e poi geografo, svolgendo poi lunghe indagini in Nuova Guinea e altre terre “selvagge” – si sente antropologo e quant’altro occorre alla sua “storia mondiale” anche attraverso l’esperienza di una madre linguista e di una moglie psicologa.

Al culmine di una carriera  multidisciplinare e di una vita cosmopolita, Diamond ha scritto questo testo (attribuendo grande importanza al precedente “Storia e geografia dei geni umani” di L. Luca Cavalli-Sforza&C, uno dei pochissimi italiani citati nell’ampia bibliografia) per rispondere alla domanda posta dal suo amico guineano Yali: perché gli occidentali hanno tutto e noi quasi nulla? E soprattutto per non rispondere che tale divario dipende da diversità razziali innate, bensì essenzialmente dai condizionamenti ambientali.

Ripercorrendo le varie combinazioni di opportunità e casualità che hanno determinato i diversi sviluppi della specie umana negli ultimi millenni nei 5 continenti abitati (così come in generale l’evoluzione delle altre specie), e soprattutto nel passaggio da uno stile di vita paleolitico (raccoglitori-cacciatori in prevalenza nomadi) alle varie forme del neolitico (attraverso la stanzialità, la domesticazione di piante ed animali e quindi la pastorizia e l’agricoltura), Diamond individua il salto di qualità verso l’accumulazione tecnologica nella peculiare dislocazione orizzontale (nella direzione dei paralleli) delle civiltà eurasiatiche, contro la dislocazione verticale (nella direzione dei meridiani) per Africa, Americhe e – interposti mari, in antico più “stretti” – area indonesiana/oceanica.
La contiguità su fasce “orizzontali” con climi analoghi e ragionevolmente temperati dal Mediterraneo (nord-Africa incluso) al Giappone, passando per la “Mezzaluna fertile” del Medio- Oriente (ora assai meno fertile)  e la Cina, avrebbe consentito in Eurasia un frequente scambio (e/o imitazione od imposizione) di innovazioni colturali e culturali (tra cui la ruota, la scrittura e le armi in acciaio), approfittando al massimo della offerta naturale di specie vegetali ed animali oggettivamente domesticabili (il cui numero del mondo è comunque assai limitato), mentre negli altri continenti, frequentati dall’homo sapiens in tempi antichissimi (Africa, origine del Sapiens, ma anche Australia) o più recenti (Americhe), la minore offerta delle suddette opportunità è rimasta molto più circoscritta ai singoli popoli, per la difficoltà di trasmissione attraverso fasce climatiche contigue troppo disparate sull’asse nord-sud.
Contestualmente la prossimità e promiscuità con gli animali addomesticati avrebbe portato le popolazioni eurasiatiche ad accumulare intensi focolai di malattie contagiose, con frequenti crisi demografiche e però con progressiva crescita di  molte specifiche, anche parziali, immunità a tali epidemie, che si sono invece poi scatenate con esiti letali ai primi contatti con le popolazioni esterne al mondo eurasiatico; e solo in alcune regioni africane le malattie locali (malaria, febbre gialla) sono risultate quasi insuperabili per la colonizzazione da parte dei “bianchi”.       
  
Il testo di Diamond approfondisce le vicende preistoriche dei vari continenti, con particolare attenzione al rapporto Europa/America (molto bello lo zoom sulla conquista spagnola del Perù, con i 168 armigeri corazzati ed i cavalli di Pizarro contro gli 80.000 inca di Atahualpa e conseguenti inganni e stermini e schiavizzazione – nonché  epidemie -, il tutto in nome di Cristo) ed al laboratorio genetico e linguistico dell’Oceania, colonizzata in parte dapprima da uomini paleolitici (con scarsissima successiva evoluzione, soprattutto, ad esempio, in Tasmania), poi da “austronesiani”, neo-litici di origine probabilmente cinese, dotati di canoe a bilanciere, a partire dal 2000 a.C. (Indonesia) fino al 500 d.C. (Isola di Pasqua, ma anche – ad ovest e presso l’Africa – il Madagascar), e da ultimo dai bianchi occidentali, spesso sterminatori, dal 18° secolo, con svariati esiti dovuti in gran parte alle differenti condizioni ambientali.
Meno approfonditi mi sono sembrati i racconti sull’Africa e sulle dinamiche interne all’enorme complesso eurasiatico (e quasi nulla è detto sull’India): in particolare solo nell’epilogo Diamond tende a rispondere ad un'altra fondamentale domanda, cioè perché a metà dell’ultimo millennio gli europei svilupparono aggressivamente il loro (più tardivo) accumulo di tecnologie verso il resto del mondo, mentre gli imperi orientali (Cina e Giappone) rallentarono i loro sviluppi e subirono l’iniziativa occidentale; la spiegazione abbozzata da Diamond fa riferimento alla articolazione e varietà geografica dell’Europa (catene montuose, però valicabili, isole e penisole) a fronte di una sostanziale continuità geografica e ad un maggior relativo isolamento (catena himalayana e deserti dell’Asia centrale) del territorio cinese: da qui una unificazione politico-culturale relativamente più facile per la Cina ed i progressi tecnologici assoggettati ai capricci delle élites centralistiche (ad esempio la distruzione della flotta transoceanica nel 15° secolo, e l’abbandono di orologi e filatoi ad acqua; analogamente in Giappone per le armi da fuoco), contro la permanente frammentazione e contrapposizione dei singoli stati europei post-medievali, che non permetteva a nessuno di essi lunghe fasi di isolazionismo e protezionismo anti-tecnologico, pena la subordinazione ai voraci vicini.
Tale spiegazione mi sembra parziale, ed a mio avviso è meritevole di essere verificata e/o integrata con altre considerazioni, ad esempio, sul ruolo dei mercati e dei mercanti, delle religioni e delle ideologie, delle famiglie e degli stati, del debito e dell’accumulazione del capitale (vedi tra le mie recensioni i contributi di Paolo Prodi, David Graeber, Gerard Delille, Acemoglu&Robinson, Giovanni Arrighi).

Parimenti interessante, ma a mio avviso troppo schematica, è nel testo di Diamond la proposizione di una evoluzione dell’organizzazione socio-politica della specie umana in 4 tappe:
-          la banda, costituita da pochi gruppi familiari e senza una sistematica divisione del lavoro;
-          la tribù, più numerosa, ma dove comunque tutti si conoscono, e dove il capo è  - inter pares – uno dei capo-famiglia;
-          la “chefferie” (che io tradurrei in “signoria”), che raggruppa più tribù e più villaggi sotto il comando di un solo capo, con potere spesso assoluto ed ereditario, ed una sostanziale specializzazione nei mestieri, tra cui quello del soldato, mediante prelievi dal surplus produttivo dell’agricoltura; 
-          lo stato, caratterizzato da una burocrazia permanente ed articolata, sorretta da un sistema organico di tassazione (e sostanzialmente dalla presenza della moneta e dalla spersonalizzazione  dei rapporti di lavoro e di scambio).
Anche se queste fasi sono collocate su un percorso crescente “dall’uguaglianza alla cleptocrazia”, e malgrado la simpatia dell’Autore verso gli uomini più primitivi da lui personalmente incontrati, Diamond si distanzia dalla nostalgia dell’età “dell’oro e della pace” propria di molti antropologi con (limitate) esperienze sul campo, soprattutto perché evidenzia i gravi limiti di insicurezza nella gestione dei conflitti con gli ”altri” nelle fasi primordiali, non appena la densità del popolamento renda frequenti i contatti tra bande  e tribù diverse e  con essi gli omicidi come causa prima e crescente di morte; solo la “chefferie” e poi lo stato, monopolizzando la violenza legale, riesce a disinnescare la catena aggressiva delle “molecole sociali” primitive, al prezzo della estrazione del surplus produttivo, con tassi variabili di depredazione aristocratica o ridistribuzione socializzante (e parallelo esercizio più o meno feroce della violenza legalizzata) all’interno della compagine, e rovesciando fuori dai confini (di comunità più vaste) la carica di aggressività (guerre, schiavitù).


Nel finale Diamond si occupa soprattutto del futuro della storia come disciplina scientifica (forse perché come geografo/biologo/ecc. si sente respinto dall’attigua accademia degli storici) e meno del futuro dell’umanità,  sul quale a mio avviso il vasto paesaggio storico/geografico di questo testo può aiutare a porre importanti domande (pur senza alcuna meccanicistica risposta).