Il testo di Giovanni Perazzoli
“CONTRO LA MISERIA – viaggio nell’Europa del nuovo welfare” (Editori
Laterza, Bari 2014, pagg. 150)
costituisce una valida panoramica del welfare europeo sul fronte della disoccupazione, con excursus storici a partire
da Bismarck (Germania fine Ottocento: impostazione assicurativa-corporativa,
limitata alla perdita del posto di lavoro per le singole categorie) a Beveridge
(Gran Bretagna metà Novecento: universalità e permanenza dei sussidi, a
sostegno di una sostanziale piena occupazione), senza dimenticare il ruolo delle concessioni di tipo
social-democratico nella sfida tra Occidente e blocco sovietico.
La rassegna di Perazzoli entra
nel dettaglio delle soluzioni adottate dai principali paesi del nord-europa
(Francia compresa), accomunate da alcuni capisaldi sostanzialmente costanti:
-
l’universalità e la permanenza (o ripetibilità),
come già accennato, con offerta di sussidio a tutti i cittadini maggiorenni
privi di reddito (a fianco di sistematiche sovvenzioni per gli studenti, non
indagate dal testo);
-
l’affiancamento con altri specifici canali di
sostegno, per la casa, la salute, i figli ed altri specifici bisogni;
-
l’intervento attivo di agenzie per la formazione
ed il collocamento.
Pensate all’origine come
intervento massiccio ma collaterale, nel contesto di tendenziale piena
occupazione tipico del periodo post-bellico, tali politiche hanno subito
revisioni e restrizioni nelle recenti fasi di crisi:
-
per la difficoltà a far fronte alla spesa
complessiva,
-
per la minor efficacia del reddito minimo come
incentivo alla ricerca del lavoro in un mercato che offre spesso sotto-salari,
-
per il crescente dissenso di tali misure a
favore dei disoccupati (e peggio se immigrati) tra altri strati di lavoratori
ed imprenditori impoveriti;
da qui le esperienze tedesche dei
“mini-job” e quelle inglesi di rafforzamento degli obblighi ad accettare i
lavori offerti; l’Autore evidenzia però la
sostanziale permanenza del sistema di welfare consolidato e la sua
attuale efficacia, anche come stimolo alla affermazione individuale per i
soggetti interessati, che solo marginalmente risultano rassegnati ad
approfittare a lungo della condizione di assistiti.
Perazzoli richiama anche, seppur non in modo sistematico, le
diverse correnti ideologiche che attraversano la pratica del reddito minimo
garantito nord-europeo, e che mi sento di riassumere come segue:
-
liberale: sostegno al lavoro “vero” e alla
produttività aziendale; scommessa sull’iniziativa individuale degli assistiti;
funzionalità del mercato del lavoro coniugata alla flessibilità dei lavoratori;
-
socialdemocratica: inclusione e universalità;
socializzazione delle fluttuazioni settoriali; spinta indiretta alla crescita
dei salari minimi per gli occupati;
-
teorici della “fine del lavoro” e sostenitori
del “reddito di cittadinanza” (esteso teoricamente anche ai ricchi, salvo
recuperarlo con maggiori tasse), tra Pierre Rosanvallon e Ulrich Beck (e ci
aggiungerei Guy Standing), i quali in sostanza sostengono che il settore
produttivo, ad alta produttività, può e deve farsi carico di tutto il resto
della baracca, che comunque gli è necessaria per il consenso e per una più
ampia “produttività sociale”;
oltre ovviamente ad una opinione
pubblica reazionaria che semplicisticamente ritiene necessario tagliare il più
possibile i sussidi “ai fannulloni”.
In contrappunto al (nord)Europa,
Perazzoli tratteggia la diversa vicenda italiana, con i successivi fallimenti
della commissione Aragona nel dopoguerra, della commissione Onofri (a metà anni
’90, 1° Governo Prodi) e del dossier Biagi (primi anni 2.000, governo
Berlusconi) e – a mio avviso senza i
necessari approfondimenti sulla concomitante assenza o carenza di reddito
garantito anche in Grecia, Spagna e Portogallo e parte dell’Est-Europa –
attribuisce le ragioni di tali insuccessi ad un mix di fattori sociali: il
familismo, il corporativismo ed il clientelismo portano a conservare la discrezionalità nelle erogazione dei sussidi (in opposizione
alla universalità) come elemento di forza del sistema di potere (e dei partiti
in particolare), alimentando fenomeni assistenziali, quali le pensioni di
invalidità (anche ad alcuni validi), i lavori finti, gli aiuti per i “poveri”,
la cassa integrazione da decidere di volta in volta, la permanenza dei giovani
nelle famiglie di origine, fenomeni che ben si
intrecciano anche con la pratica del lavoro in nero.
Un sistema vischioso, che appare
insuperabile, e che Perazzoli vorrebbe scardinare con l’universalità del
reddito minimo garantito.
I MIEI DUBBI IN PROPOSITO
Per parte mia non ho dubbi sulla preferibilità del modello nord-europeo
rispetto alla attuale situazione italiana, ma ho qualche dubbio sia sulla
esportabilità del modello in Italia (1), sia su alcuni aspetti intrinseci del
modello di welfare proposto (2-3-4):
1-
se in
Italia (come in altri paesi mediterranei) gli attuali sussidi coesistono con il
lavoro in nero (che nel contempo a mio avviso gonfia oltre il credibile le
statistiche dei giovani che “né studiano né lavorano”), come potrebbe invece il
reddito minimo garantito ed universale escludere di affiancarsi di fatto
anch’esso al lavoro in nero?
2-
Il mondo
delle aziende produttive deve essere considerato come un ambito superiore, dove
tutti (gli inclusi) si realizzano in serenità e pace (e che può esternalizzare
come tasse i costi del mantenimento degli esclusi tramite welfare) oppure comunque genera conflitti e disagi
(competitività, super-lavoro, stress) che in una più equa ripartizione del
lavoro potrebbero stemperarsi a vantaggio di tutti (i già inclusi e gli
includibili), sia con progressive riduzioni degli orari e contratti di
solidarietà (e staffette giovani/anziani), sia internalizzando parte del
welfare e cioè ponendo a carico delle aziende quote di assunzioni “sociali”
(come in parte già avviene con i disabili)?
3-
le
esperienze di ripartizione sociale del lavoro fuori dalle aziende, cioè nel
settore pubblico e nel “terzo settore”, come i “lavori socialmente utili”
ed il servizio civile, sono da
considerare “assistenzialisti”, mentre l’erogazione di sussidi universali,
senza chiedere contropartite in lavoro (ed in parallela seria frequentazione di
corsi formativi), non lo sarebbe
4-
stanti
le difficoltà della finanza pubblica, se si trovassero le risorse per allargare
progressivamente le indennità di disoccupazione, perché non coniugare questa
spesa sociale con l’enorme fabbisogno arretrato di manutenzione gestione dei
beni comuni (territorio, ambiente, beni culturali)?
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