L’intervista ad un
ex-Sindaco di Somma Lombardo, a partire dalla sua formazione di cattolico
impegnato nel sindacato ed in politica, attraverso l’esperienza di impiegato e
di delegato sindacale in quello che fu il Lanificio di Somma.
Riassunto: la
formazione, tra famiglia, oratorio e “fermenti conciliari”. La fabbrica e il
sindacato, operai ed impiegati. Peculiarità del Lanificio di Somma: gerarchia
professionale e gestione familiare La vertenza sul “salario sociale”. Le
successive trasformazioni del capitale e del lavoro. La fabbrica rivisitata da
Sindaco della Città. La de-industrializzazione e gli sviluppi di Malpensa:
Somma cittadina di servizi. Disaggregazione sociale e individualismo. La
difficile speranza in un futuro migliore, anche in quanto cattolici.
Domanda – Nella Tua
formazione, tra famiglia e oratorio, e poi tra scuola e fabbrica (e sindacato),
come sono emerse le istanze di giustizia sociale, che poi si sono affermate nei
movimenti tra gli anni 60 e gli anni 70?
In
una fabbrica relativamente dislocata dal fuoco della “lotta di classe”, come il
Lanificio di Somma Lombardo, come sono maturate le nuove forme di lotta, di
organizzazione, di obiettivi (più egualitari che non prima)?
Risposta - Sono cresciuto in
una famiglia matriarcale. Il punto di riferimento era la mia nonna materna che
mi ha inculcato il senso della solidarietà e della giustizia. In casa non si
parlava molto di politica, ma mio nonno soleva dire che Gesù era socialista
perché uno che ”moltiplica i pani e i pesci e, soprattutto, tramuta l’acqua in
vino” non può non esserlo.
Non
solo: a mia madre durante la guerra è capitato di dover rifocillare i
partigiani e ha rischiato una mitragliata da parte della ronda fascista. Fra
l’altro, fatto del tutto casuale (ma mi piace considerare non tale), son nato
il 25 Aprile!
Fatta
questa premessa, devo ammettere che più che la scuola è stato l’ambiente
oratoriale a indirizzare le mie scelte. Soffiava allora il vento rinnovatore
del Concilio voluto da Papa Giovanni,
così il percorso dall’Oratorio ai “gruppi spontanei” (il mio si chiamava
Presenza Critica), per poi finire nell’orbita delle Comunità di Base e del
“dissenso cattolico”, è stato del tutto naturale. E’ in quegli ambienti che ho
incontrato personalità come dom Franzoni (mi è appena tornato tra le mani un
suo libretto : la Terra è di Dio) o il Vescovo Bettazzi. Ma i “maestri” che più
hanno inciso sulle mie scelte sono stati padre Turoldo e un gesuita di Trento,
Gigi Movia.
Così
quando sono stato assunto al Lanificio mi è venuto spontaneo avvicinarmi al
mondo sindacale. Accettai quasi subito di occuparmi delle 150 ore e
successivamente di rappresentare gli impiegati nel CUF (Consiglio Unitario di
Fabbrica), organismo che sostituiva la Commissione Interna. I cambiamenti tra
la vecchia e incartapecorita rappresentanza sindacale e la nuova furono
notevoli.
Nel
CUF venivano finalmente eletti rappresentanti di reparto, quindi anche operai
di basso livello salariale che spesso godevano di scarsa considerazione da
parte dei capireparto e avevano di conseguenza una “carica” antagonistica più
marcata. Molti reparti poi avevano in prevalenza manodopera femminile, quindi
nel CUF fecero la loro comparsa le donne, portandovi il prezioso contributo
della loro specifica sensibilità.
Furono
proprio le operaie del reparto Orlatura a chiedere il superamento del cottimo
individuale. Vista la resistenza della Confindustria gallaratese, fu tutt’altro
che facile, ma alla fine comunque la spuntammo introducendo il cottimo
collettivo
D – Mi incuriosisce la
vicenda del “salario sociale” da Voi conquistato e devoluto All’Asilo Nido
comunale
R - Altra conquista
voluta soprattutto dalle operaie fu quella relativa al “salario sociale”.
A
Somma era imminente l’apertura dell’Asilo Nido Comunale e i costi di gestione
della struttura inevitabilmente si sarebbero riversati sulle rette. Così nella
piattaforma aziendale ponemmo una specifica richiesta: eravamo disposti a
limare la richiesta salariale in cambio di un contributo pluriennale
dell’azienda per la gestione del Nido.
Ad
onor del vero la proprietà, con un atteggiamento olivettiano, si dimostrò
sensibile al problema e fece in modo di superare il veto confindustriale. Nelle
assemblee però ci furono non pochi problemi. Si trattava infatti di rinunciare
a una parte, seppur minima, dell’aumento in busta paga e non tutti erano
d’accordo.
Toccò
a me gestire l’assemblea generale prima della firma dell’accordo e gli
interventi negativi su quel punto non furono pochi, per lo più di operai
anziani. Il clima era tale che temevo addirittura un voto negativo. L’ultimo
intervento contrario fu di un trentenne e l’applauso che lo seguì non faceva
infatti presagire nulla di buono.
Poi
dal fondo della sala mensa si udì una voce femminile, quella di sua moglie, che
sovrastando il chiacchiericcio disse in dialetto poche ma convincenti parole: “Giuan, da stasira ti ve a dormì sul divan
perché tant ta la do no!” Lasciai finire la lunga risata collettiva e
gridai: “Chi è a favore alzi la mano!” Era la stragrande maggioranza!
“Contrari?” Meno di una dozzina! “Chi si astiene?” Tre o quattro, compreso
quel Giovanni!
D – Che rapporti c’erano
tra impiegati e operai, e con le gerarchie aziendali, “prima e dopo” rispetto
alla svolta di fine anni ’60?
Dalla
fabbrica, come erano viste le agitazioni studentesche e poi l’attivismo dei
gruppi politici “extra-parlamentari”? E i sindacati ed i partiti tradizionali?
Nella
Vostra esperienza sindacale, c’era un apertura alle utopie “rivoluzionarie”?
R - Il Lanificio era una
azienda a gestione familiare, e almeno sino agli anni 80 ha avuto una politica
del personale mirata alla crescita delle risorse interne. Il dirigente del mio
settore, ad esempio, era stato assunto come fattorino e molti capiufficio venivano
dal “basso”. Questo comportava un rapporto diretto con la proprietà, del resto
quotidianamente presente.
Naturalmente
l’organizzazione era piramidale, ma per alcuni aspetti informale. Anche gli
impiegati di livello inferiore, come il sottoscritto, si rapportavano
direttamente con la direzione e sovente con la proprietà. Soprattutto negli
uffici, questo clima induceva dunque a rafforzare il senso di appartenenza.
Nei
reparti invece la gerarchia era più evidente, ma, tutto sommato tendeva a
valorizzare le professionalità dei sottoposti. Del resto, a differenza di altri
settori, non vi era la “catena di montaggio” e l’apporto del singolo lavoratore
e della sua professionalità era importante in molte fasi della lavorazione.
Faccio un esempio. Il reparto Rammendo era composto da operaie che manualmente
riparavano i “falli” nati a telaio. In pratica sopperivano agli errori a monte,
riducevano gli scarti e garantivano l’alta qualità del prodotto, consentendone
la commercializzazione a valore pieno. Per farlo occorreva dunque una costante
attenzione e una alta professionalità
(purtroppo non riconosciuta dal
contratto nazionale).
La
“coscienza di classe” era solo in embrione e la divisione tra operai e
impiegati era ben evidente. I “proletari con la cravatta” (così li chiamavo)
mal digerivano la politica egualitaria del sindacato, accentuata dalle
richieste del CUF (premio di produzione uguale per tutti, superamento del
cottimo, ecc.) e soprattutto nei momenti caldi questa divisione emergeva con
maggior evidenza, tant’è che un paio di volte fummo costretti a ricorrere ai
picchetti.
L’omicidio
di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse complicò ulteriormente la situazione.
Tra gli operai si evidenziò il rifiuto non solo nei confronti del terrorismo,
ma anche in quello dei movimenti extraparlamentari che comunque non avevano mai
avuto un gran seguito. Scarsa era pure nei confronti delle agitazioni
studentesche. A tal proposito, sono emblematiche le parole di un delegato in
occasione dell’occupazione di un liceo gallaratese: “un lusso dei figli dei
ricchi che le famiglie degli operai non si possono e non si devono permettere”.
Del resto tra tutti i delegati, oltre a me che palesavo apertamente la mia
simpatia per DP, vi era un sola aderente a Lotta Continua e gli
elettori DC, seppur minoritari, non mancavano.
Per
quanto riguarda l’adesione al sindacato invece le cose andavano meglio,
soprattutto dopo la nascita della FULTA, la federazione unitaria. Certo nei
reparti nessuno “sognava” la rivoluzione e la critica ideologica al “sistema”
non era certo considerata avvincente. Regnava insomma una sorta di pragmatismo
che non metteva certo in discussione “la proprietà dei mezzi di produzione” e
che puntava esclusivamente a migliorare, oltre il salario, più complessivamente
le condizioni di lavoro e i rapporti con i diretti superiori. La proprietà
veniva percepita come una legittima
controparte con la quale rapportarsi e scontrarsi, ma sempre nel rispetto dei
diversi ruoli e con una sorta di sudditanza difficile da scalfire.
D – E Tu come vedevi la
fabbrica, prima e dopo esserci entrato? - Hai vissuto in fabbrica anche le successive
fasi di riflusso delle lotte sindacali, da un lato, e di de-industrializzazione
(alquanto radicale per il Lanificio), dall’altro?
R - Prima di entrarci,
per me la fabbrica era semplicemente il posto dove guadagnarmi da vivere. Avevo
la fidanzatina e volevo una famiglia mia, e il lavoro era il mezzo per rendermi
economicamente autonomo. Però mi ci volle poco per maturare la convinzione che
fosse anche lo strumento per un cambiamento più ampio.
Crebbe
in me il mito della classe operaia e l’illusione, cullata con entusiastica
passione, che proprio a partire dalla fabbrica si poteva almeno modificare il
sistema, se non addirittura abbatterlo.
Ma
il sogno si è ben presto infranto con la crisi del settore, con la cassa
integrazione e gli esuberi. La proprietà cambiò metodo di gestione, assumendo i
vari direttori generali che tagliarono interi reparti di produzione.
Così
quando nel 2005, dopo il secondo mandato da Sindaco, sono rientrato in fabbrica
(che nel frattempo era stata ceduta a una azienda cotoniera) mi son trovato in
un altro mondo. Nell’assemblea in cui si discuteva per l’ennesima volta di
esuberi e prepensionamenti gli incazzati non erano quelli che stavano per
essere espulsi, bensì quelli che conservavano il posto!
Provai
a parlare di diritto al lavoro, di cassa a rotazione e di contratti di
solidarietà, ma fui subito zittito. Le globalizzazione e le ripetute crisi
aveva proprio spazzato via tutto, compreso il pur tenue spirito solidaristico.
E il ruolo rivendicativo del sindacato era stato svuotato da quella che, a
torto o a ragione, si può definire “cogestione” della crisi.
D – Dagli anni ’80 hai
avuto intensi rapporti con la realtà sociale di Somma Lombardo nella veste di
amministratore locale, Sindaco per quasi 10 anni (dal 1996 al 2005), e
consigliere di opposizione prima e dopo, ed ora di nuovo come consigliere di
maggioranza (senza eccessivi “filtri partitici”, in quanto “indipendente di
sinistra”): hai compreso meglio il tessuto sociale della città (nel frattempo
coinvolta dall’espansione dell’aeroporto di Malpensa)?
In
particolare quali siano le “basi sociali” della peculiare oscillazione di Somma
tra centro-sinistra e centro-destra? Esistono e pesano (o hanno pesato in
passato) “operai berlusconiani” e “operai leghisti”?
R - Somma, come altre
realtà, è passata da città industriale a città di servizi. Non ho mai fatto i
conti precisi, ma penso di non sbagliare, se non per difetto, dicendo che si
son persi almeno 2.000 posti di lavoro in fabbrica. Il settore tessile è
praticamente sparito (Lanificio, ricamifici, maglierie, ecc.), come pure quello
della gomma (ex Itala-Pirelli). La Caproni ha chiuso e l’unica azienda metalmeccanica
che ha superato la crisi è la Secondo Mona.
Tutto
questo ha colpito in particolare l’occupazione femminile, solo in parte
ricollocata nei servizi: grande distribuzione e servizi alla persona. La
manodopera maschile è stata in parte assorbita dall’indotto di Malpensa e da
piccole o micro imprese e dai servizi artigianali (idraulici, giardinieri,
manutenzione edile, ecc.), caratterizzati da bassi salari, precarietà, assenza
di diritti sindacali, proliferazione delle partite IVA (per lo più proletarizzate)
e retribuzione in nero.
Il
saldo occupazionale è comunque negativo e l’impoverimento complessivo, sia
sotto il profilo economico che quello professionale, è evidente.
Non
solo: la chiusura delle fabbriche e la dispersione dei lavoratori ha provocato
anche un arretramento politico. La già fragile “consapevolezza di classe” ha
lasciato il posto alla ricerca di soluzioni personali, spesso tutt’altro che
gratificanti.
Questo
ha indebolito il senso di appartenenza, giusto o sbagliato che fosse, dei
lavoratori alla azienda in cui si lavorava e di conseguenza alla “comunità”
cittadina.
La
“sommesità” (chiamiamola così) si è indebolita e se sopravvive è per merito
dell’associazionismo. Tutto questo ha intaccato anche il mondo della politica,
indebolendo soprattutto la componente che richiede una adesione più ideologica
o per lo meno più convinta: la Sinistra.
Come
ovunque, il populismo ha fatto strage di valori e ha rafforzato gli
atteggiamenti e le scelte qualunquistiche. Questo spiega sia l’aumento
dell’astensionismo che la volatilità delle scelte elettorali che ha livello
regionale e statale ha sempre premiato il centrodestra.
A
livello locale il centrosinistra regge solo con grandi sforzi partecipativi
(ripristino dei Comitati di quartiere, coinvolgimento delle associazioni, ecc.)
e puntando sulla corretta e trasparente gestione, fatto davvero
“rivoluzionario” rispetto anche al più recente passato. Inoltre è sicuramente significativo
il fatto che attualmente delle 4 liste del centrosinistra solo una ha un
preciso riferimento a livello nazionale (PD).
D – Nella Tua visione
socio-politica (che per brevità enuncerei come “catto-comunista”…), ed alla
luce di tali esperienze, c’è spazio per la speranza di un futuro migliore per
l’umanità (e per la biosfera)?
Immagino
che Tu abbia apprezzato, anche più di me, questo Papa e le sue encicliche: mi
aiuti a capire perché – almeno in apparenza – i buoni cattolici dei nostri
territori non ne risultino più di tanto affascinati?
R - Per prima cosa si
dovrebbe stabilire chi sono i “buoni cattolici”, anzi ancor prima dovremmo
accordarci su chi sono i “buoni
cristiani”. Alla lettera, dovrebbero essere quelle persone che vivono la
propria esistenza alla luce del messaggio di Cristo. La radicalità è (dovrebbe essere) l’elemento
fondante del Cristianesimo e Francesco la interpreta con determinazione e stando
al passo dei tempi. In certi suoi interventi (vedi ad esempio le unioni civili,
ma non solo) riecheggia la distinzione di Papa Giovanni tra “errore” e
“errante”, base fondamentale della comprensione, dell’ascolto, della
accoglienza e strumento imprescindibile per sconfiggere il pregiudizio e
ricomporre la fratellanza.
Certo,
questa radicalità mette in discussione i
nostri atteggiamenti. Per questo i “buoni cattolici” evitano di lasciarsi
interrogare, rifiutando di fatto, o fingendo di ignorare, la radicalità
evangelica riscoperta da Francesco.
Il
Papa in pratica pone domande che i “buoni cattolici” non vorrebbero fossero
poste. Sono richiami destabilizzanti, non solo sul piano personale (in tal caso
ce la si cava con una confessione e un paio di pater, ave, gloria), ma
soprattutto sul piano sociale, sul modello di società, sul sistema
capitalistico.
Insomma
Francesco ci ripropone con forza il Cristo dei poveri, degli ultimi, dei
lebbrosi. E questo Cristo non può essere (o difficilmente lo è) il Dio dei
“buoni cattolici” del decadente e egoistico occidente. Così come non può
esserlo dei “padroni della Terra” perché questa, proprio come nella parabola
della vigna, ci è stata data in custodia, in comodato d’uso, e non certo in
proprietà!
E’
appunto per questo che Francesco affascina chi ha valori umani più radicati,
perché tutto sommato ci mostra l’umanità di un Cristo uomo, prima ancora del
Cristo figlio di Dio. Ed è per questo che alla morte di Francesco temo che
assisteremo ad una ventata reazionaria all’interno della Chiesa e, di
conseguenza, all’interno della nostra società.
Pessimista?
Non del tutto.
La
vittoria di Biden non cambia il mondo, ma – ad esempio, con la annunciata
volontà di rientrare nell’accordo di Parigi - riaccende qualche speranza
soprattutto in materia di tutela ambientale e di contrasto ai cambiamenti
climatici. Rimane però il fatto conclamato di quanto siano pericolosi i
personaggi come Trump e del consenso, non certo di poco conto, che lo circonda,
sia negli USA che in altri Paesi, compreso il nostro. Il populismo è ben vivo e
vegeto e la vittoria dei Democratici non può certo estirparlo.
Molto
dipenderà dai più giovani, ma anche da come noi vecchietti sapremo sostenerli,
da come nel nostro piccolo eviteremo d’arrenderci, coniugando nel miglior modo
possibile i valori con la pragmatica pratica della quotidianità. Insomma c’è
molto da fare e per farlo dobbiamo ricordarci che c’è e sempre ci sarà un sogno
da sognare, una utopia per cui lottare. Anche quando “noi non ci saremo”.
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