L’intervista ad un protagonista e testimone delle trasformazioni del lavoro e della società dagli anni ’60 ad oggi (ed al futuro?), tra Ignis di Borghi e interclassismo aronese (interpuntata da film indimenticabili)
Riassunto. Le origini
familiari e la scuola. Il lavoro e i giovani negli anni ’60; e il rock-and-roll
ed il cinema. L’incontro con i vecchi quadri social-comunisti e poi con gli
studenti ‘contestatori’. Il passaggio alla grande fabbrica, tra il paternalismo
aziendale e le pesanti condizioni di lavoro. Lotte spontanee di reparto e
vertenze sindacali nazionali, sinistra rivoluzionaria e presenza capillare
della FIOM e del PCI. Arona: l’intervento politico nelle piccole fabbriche e le
iniziative sociali sul territorio. Il riflusso degli anni ’80 nelle fabbriche e
fuori. La sfida dell’eroina. Il popolo orfano del Partito. Le pallide
trasformazioni dei partiti di sinistra. La difficile strada per una nuova
coscienza ecologica.
DOMANDA – Il mito del
comunismo, per chi - come Te - era un giovane operaio negli anni ’60, derivava
più dalla memoria familiare (comprese le lotte contadine del meridione) oppure
dal rapporto con gli operai sindacalizzati, i quadri del P.C.I. o anche del
P.S.I., gli ex-partigiani?
RISPOSTA - Nella mia famiglia
ho respirato l’aria del comunismo da sempre, mio padre diceva “contro il
mucchio dei padroni, facciamo il mucchio dei poveri”, per dire, mia nonna - che
era del 1895 - quando gli chiedevo cosa votava, rispondeva “il primo in alto a
destra falce e martello” (per la cronaca: era analfabeta).
Noi
eravamo una famiglia di immigrati un po’ particolare, mio padre era siciliano
operaio nei pastifici, mia madre una napoletana verace della piccola borghesia,
galeotta fu la guerra che li fece incontrare, la decisione di venire su al Nord
aveva molte motivazioni, quello economico, mio padre fu richiesto dal
pastificio Florio di Lesa con un salario decente, l’insofferenza di mia madre
per le abitudini un po’ arcaiche vigenti in loco, e - non ultimo - nei primi anni cinquanta si
consumò definitivamente la sconfitta del movimento popolare in Sicilia, e le
persone che si erano esposte non è che se la passavano bene: molti quadri
operai e sindacali presero la via dell’emigrazione, il fratello di mio padre,
che era un quadro del PCI, facendo carte false emigrò in America.
Come
vedi per me la presenza del comunismo, o meglio la presenza di quella chiesa
che era il PCI, è stata una costante, tutte le scelte che ho fatto in seguito
erano una logica conseguenza; mio padre mi raccontava che suo nonno aveva
partecipato ai moti popolari dei fasci siciliani: non so se era vero, ma - come
si dice - buon sangue non mente.
D - Ed in particolare le
spinte più radicali, la speranza o l’illusione di una possibile svolta
rivoluzionaria, nascevano dall’interno del movimento operaio o anche dal
rapporto con gli studenti, con le prime riviste di avanguardia (come i Quaderni
Rossi) e poi con i cosiddetti “gruppi extra-parlamentari”?
R - Hobsbawm, nel suo
libro “Il secolo breve”, scrive che gli anni sessanta sono il periodo d’oro
delle socialdemocrazie: sono d'accordo con lui, credo che da allora nessuna
generazione di giovani abbia avuto le possibilità di lavoro che avevamo noi, lo
trovavi sempre, c’era una infinità di fabbriche grandi e piccole, botteghe
artigiane ecc, con salari più o meno giusti che permettevano al proletariato
giovanile un potere contrattuale a livello individuale, mai più visto dopo , e
la radicalità dei giovani arrivava anche da lì, non eravamo mantenuti, anzi
aiutavamo la baracca familiare, e a influenzarci non furono né le riviste né
gli intellettuali.
Eravamo
giovani lupi affamati di vita, terroni, emiliani, veneti, locali, che ad un
certo punto scoprirono il rock-and-roll, e fu amore a prima vista, il mondo si apriva,
conscevamo i Beatles i Rolling Stones, Bob Dylan, il Vietnam, Che Guevara, il
terzo mondo, i Black Panther; diventammo - non tutti, ma tanti di noi – rivoluzionari:
anche se non sapevamo bene cosa poi volesse dire.
La
canzone “Satisfaction” dei Rollingstones fu la nostra internazionale, e
bandiera rossa insieme, ci schieravamo e dividevamo anche allora come sempre,
rockers contro mods, juventini contro tutti gli altri, Mazzola di sinistra
contro Rivera democristiano..
Sempre
Hobsbawm nel già citato libro, dice che ha fatto di più Elvis Presley con il suo
rock-and-roll, per il movimento, che tutte le opere scelte di Lenin, e non
posso che essere d'accordo.
E
poi ci fu il cinema, ma non quello da cineforum, ma il più proletario western
all’ italiana che ci fece scoprire che gli indiani non erano sempre dalla parte
del torto, ci fece amare la rivoluzione messicana, Pancho Villa, Emiliano
Zapata: memorabile Thomas Milian in un film sulla rivolta dei cangaceiros in
Brasile, Marlon Brando ne “il Selvaggio”, che ci fece vedere che vi era una
altra America.
Un
ricordo personale, per dirti il clima: nel film Quien sabe con Gian Maria
Volonté, nella scena finale in cui un bambino messicano raccoglie una borsa
piena di dollari e chiede al protagonista cosa doveva farne (siamo in Messico
durante la rivoluzione), Volonté lo guarda e dice “compraci dinamite”, eravamo in branco, ci alzammo ed
applaudimmo.
D - Come vedevate il 68
e noi sessantottini?
R - Nella società di
allora, in cui il rosso era rosso e il nero era nero, la cosa funzionava cosi,
senza se e senza ma: o studi o lavori, se decidevi di lavorare andavi all’avviamento,
se decidevi di studiare andavi alle medie, la discriminante di classe era che
in genere i giovani proletari andavano nella prima, i figli dei sciuri, anche
se zucconi, nella seconda.
E
qui voglio spezzare una lancia a favore della tanto criticata scuola
democristiana, io e tanti altri di quella generazione ne portiamo un bel
ricordo, abbiamo avuto dei professori democristianissimi che ci hanno fatto
amare i poeti italiani, Dante, Manzoni.
Fatta
questa premessa, quando il movimento degli studenti cominciò a farsi sentire
noi li osservavamo da lontano con un misto di curiosità e diffidenza; le cose
cambiarono quando i due mondi si ritrovarono nel movimento di protesta contro
la guerra nel Vietnam.
La
prima volta che ci annusammo da vicino fu la manifestazione contro il film “Berretti
verdi” ad Arona, e capimmo che non tutti gli studenti erano nemici di classe, e
da allora alcuni di noi, i più politicizzati, aprirono un confronto destinato ad
avere sviluppi da lì a qualche anno.
D- In quegli anni Tu sei
passato da una piccola fabbrica di Arona alla grande Ignis “fordista” di Borghi
(che mandava gli autobus a prelevarVi in tutti i paesi), come pesò questo salto
nelle Tue condizioni di vita e nelle possibilità di lottare contro “padroni”
così diversi?
R - Entrai alla Ignis nei
primi mesi del 69, e fu uno choc, per alcuni giorni non sapevo trovare neanche
la strada che mi portava nel reparto in cui lavoravo, era come trovarsi in una
città che non conosci, gente che andava e veniva, pullman che dal piazzale
centrale portava gli operai nei vari reparti distanti qualche kilometro; ma la
cosa che mi sconvolse erano le fermate dei pulmini interni, mi spiegarono che
se dovevo andare in un altro reparto o negli uffici centrali dovevo prenderlo e non andarci a piedi, se no
si faceva notte, pensarono -come si dice - che mi avesse portato giù la piena.
Entrare
nella grande fabbrica, fu come scoprire un nuovo mondo, per un po' mi sono
chiesto che ci faccio qui io, poi presi il ritmo e come tutti quelli che vi
lavoravano cominciai, e si, ad amarla,
perché come canta Guccini, ci sono tempi e ritmi anche dentro un ospedale, in questo
caso dentro una fabbrica: mi piaceva il viaggio in corriera la mattina alle 5,
quando nel dormiveglia si discuteva di tutto, politica, sport, minchiate;
memorabili erano i lunedì mattina, in cui di rigore era il calcio, milanisti
contro interisti, e come al solito juventini contro tutti; il viaggio di
ritorno di solito era silenzioso, si era un po' stanchi.
C'era
la corsa in mensa perché avevi poco tempo per mangiare, e poi ripartivano le
linee di produzione, e poi (questa magari non è proprio politicamente corretta,
ma la dico lo stesso) c’erano le donne, tante donne non ne avevo mai viste
tante tutte insieme.
D – Ti va di raccontare
qualcosa della vita in fabbrica, come si lavorava, i rapporti con i colleghi e la
struttura gerarchica, le trasformazioni negli anni, le conquiste, gli
arretramenti, i modi di pensare?
R - Nella fabbrica,
quando entrai io, vigeva una sorta di paternalismo autoritario, da una parte
avevi delle paghe per l'epoca più che buone, un centro sanitario efficiente,
già allora c'era una medicina del lavoro buona, più vari “gadget e cotillon”,
che entravano nella vita sociale delle persone, case, feste, centro sportivo, e che coinvolgevano per forza di cose comunque
in modo organico soprattutto gli abitanti dei centri vicini alla fabbrica, ma
erano poco seguiti da chi abitava distante (c'era una quota piccola, ma c'era,
di lavoratori che venivano addirittura da Verbania).
Dall'altro
c’erano sulle linee ritmi infernali, pochissime pause per respirare, una pausa
per mangiare di venti minuti, anche i bisogni fisiologici erano un problema, la
struttura di comando era formata da una masnada di direttori, capi, capetti,
pretoriani, tutti ben scelti per la loro fedeltà, e non ti dico dei più odiati
di tutti, i tempisti, cioè quelli che per mestiere avevano per compito di dare
il ritmo, che erano i peggiori.
È
chiaro che le contraddizioni prima o poi esplodono, e il primo grande ciclo di
lotta, alla fine degli anni ’60, puntò
subito ad allargare gli spazi vitali nella fabbrica ed a tentare di demolire la
struttura di comando; allora entrarono in fabbrica quelli che Viale chiama, in
un suo bel libro, “gli strani soldati”, l'operaio massa non qualificato, ancor
meno sindacalizzato, che arrivava dal sud,
dal Veneto, spesso giovani uomini e donne con in testa le immagini, i
suoni, le nuove idee che percorrono la società, e quando partirono le lotte per
alcuni anni non ce ne fu per nessuno.
D - Com’era allora il
rapporto tra le “avanguardie” e le masse operaie (ed in particolare con gli
elettori del P.C.I.)? Prima e dopo il 1969?
R - Lì per la prima
volta mi trovai a fare i conti con un PCI diverso, duro e puro, ben organizzato
con una rete capillare all'interno dei reparti e sul territorio, con un gruppo
dirigente di origine emiliana intellettualmente preparato.
Per
dire, quando la sinistra operaia cominciò a contare nei reparti e nel Consiglio
di Fabbrica, per tentare di arginarci il sindacato mandò un pezzo da novanta
come Rinaldini, da Reggio Emilia, a fare il responsabile della FIOM; la Ignis
in quegli anni innescò una serie di lotte, che per metodi e fantasia, credo solo l'Alfa di Arese ci eguagliava; per
dirti: la mensa per tutti, la pausa mensa per i turnisti di 35 minuti, penso
siamo stati i primi in una fabbrica di quella grandezza ad ottenerla.
In
questo scontro incrociato per l'egemonia in fabbrica, le masse operaie
seguivano il loro istinto un po' opportunista, nelle lotte di reparto su pause,
qualifiche, contro tempisti, capi e capetti, appoggiavano la sinistra operaia,
nelle grandi questioni come i contratti nazionali o aziendali, stavano con il
sindacato; ciò non toglie, che - quando si trattava di far approvare il
contratto - la FIOM doveva mandare un dirigente nazionale, per non rischiare
qualche clamorosa sorpresa: un dato, un contratto molto importante - non
ricordo se quello del 73 o 76 - i SI presero 5000 voti, il NO, cioè noi, circa
2000.
Che
dire, noi per la base del PCI, ma anche per tutti gli altri, eravamo i loro
figli, un po' turbolenti, eravamo foglie e rami dello stesso albero, tieni
conto che in quegli anni di fuoco noi avevamo poco più di vent'anni, ed essere
giovani e belli valeva pur qualcosa.
D - Com’era il lavoro
politico sul territorio, in una realtà come Arona, dove gli operai maschi
salivano sugli autobus di Borghi oppure sui treni per la Siai o la Franco Tosi,
e le fabbriche locali erano solo femminili, per il resto una cittadina di bottegai
e insegnanti, ferrovieri battellotti e muratori?
R - Nell'aronese il PCI
era un partito presente sul territorio, e in quegli anni ingrossato
dall'immigrazione soprattutto emiliana e molisana, ma il cui gruppo dirigente era legato ad una concezione
resistenziale; solo nei primi anni settanta si affermò un nuovo gruppo
dirigente con un ferroviere romagnolo dinamico che lo portò poi nel ‘75 al suo
massimo storico (tra parentesi anche con i voti della sinistra radicale), ma di
contro era presente in modo poco organizzato nei luoghi di lavoro, e così anche
il sindacato, tranne che in poche situazioni, tipo Steffen (con la CISL) e il
calzaturificio PAM (con la CGIL); partito e sindacato avevano i loro punti di
forza tra i battelotti, e i ferrovieri, ma i primi erano una aristocrazia
operaia molto corporativa e molto chiusa, i ferrovieri invece erano più
dinamici anche nel sociale.
Quando
pero l'onda lunga delle lotte arrivò anche qui, tutto si mise in movimento, la
sinistra radicale inondò di volantini tutte le fabbriche e fabbrichette, mi
ricordo volantinaggi a tappeto anche in maglifici con 10 operaie, i risultati
furono la riuscita dei grandi scioperi generali, si scioperò in posti dove non
lo si era mai neanche pensato, il sindacato aprì una serie di vertenze
aziendali a tappeto, entrò in fabbrichette che mai avrebbe pensato, riuscendo a
strappare aumenti salariali e migliori condizioni di vita.
Ci
sono due episodi che riporto per dire dei tempi, elezioni della commissione
interna alla PAM, fabbrica con caratteristiche fordiste, il dissenso operaio si
manifestò cosi: su 200 votanti ci furono 50 schede con scritto “W Mao”.
La
seconda riguarda la Laica, roccaforte del crumiraggio antisindacale, dove non avevano
mai neanche permesso al sindacato di entrare, in uno sciopero generale
decidemmo che era ora di finirla, fu una battaglia campale, ma li facemmo
scioperare: è una delle cose che ricordo con più piacere.
D - C’era uno “specifico
lacustre” nella sinistra rivoluzionaria? (ricordo un Tuo assioma, contro la
burocrazia del partitino Lotta Continua: “in luglio non si fanno gli attivi
operai al sabato pomeriggio, perché si va al Lago”)
R - Non penso che ci
fosse un specificità lacustre come dici tu, il proletariato giovanile di quegli
anni era sostanzialmente anarcoide: Alla faccia dei teorici dei partitini
leninisti, trozkisti, maoisti, volevamo vivere, volevamo tutto, il pane e le
rose, e se c'era anche la birra; il nostro mito erano gli uomini del film “Il
mucchio selvaggio”, che in cinque vanno incontro alla morte certa contro i
federales, per una mera questione di principio, era il rivoluzionario irlandese
che va a morire in Messico per una rivoluzione non sua; erano gli arditi del
popolo, i partigiani, e i combattenti internazionalisti in Spagna, tutti gli
irregolari e gli eretici, che fanno le cose perché vanno fatte, perché e giusto
così.
Poi
si comincio a parlare di agire da partito, creare cartelli elettorali, e fu
l'inizio della fine.
D - Che rapporto c’era
tra le concrete esperienze “miglioriste” (sulla casa, sul piano regolatore,
ecc.) e le utopie rivoluzionarie?
R - Non mi sono mai
posto questo problema, pensare in grande ed agire nel piccolo, era una delle
massime di Mao e credo che non ci sono contradizioni nelle cose che abbiamo
fatto: lottare contro quel piano regolatore era giusto, difendere il
territorio, contro gli appetiti degli speculatori era lotta di classe;
memorabile il consiglio comunale in cui il capogruppo del PCI, un ferroviere, smontò, agendo in concerto con
la sinistra rivoluzionaria,
punto per punto quel piano, penso che sia stato uno dei momenti di massima
unità di tutta la sinistra. La casa poi era un bisogno primario e noi demmo una
risposta, partire dai bisogni delle persone e agire di conseguenza, ricordo
donne del movimento che aiutavano altre donne a risolvere i loro problemi,
anche i più gravi, per un certo periodo avviammo addirittura un doposcuola nel
centro storico per i figli dei proletari, non avevamo soldi ma il sogno era
dargli anche la merenda, idea mutuata da esperienze simili in tutta Italia, ma
era anche - e questo contava per noi - un punto cardine del programma dei Black
Panther, si vede che avevamo cominciato a leggere cose serie.
D - Come si manifestò il
“riflusso”, alla fine degli anni ’70, in fabbrica e fuori?
R - Poi arrivò l'inverno.
Dove non c'erano riusciti con le bombe, con la strategia della tensione, con la
guerra civile strisciante con tanti ragazzi caduti nelle strade (aiutati in
questo dalla follia di spezzoni del movimento che praticarono la lotta armata),
mentre si concludeva una fase congiunturale favorevole, e iniziavano a vedersi
i segni di una crisi del sistema, i padroni e la destra sociale passarono al
contrattacco.
Lo
fecero in maniera spietata ed intelligente, non all'inglese dove la Lady-di-Ferro
andò allo scontro frontale con la classe operaia sconfiggendola sul campo, ma
cominciarono col togliere l'acqua dove noi nuotavamo, cassa integrazione a
gogò, portarono fuori dalla fabbrica interi reparti, alcune linee di produzione
finirono in Cina, e nell'Europa dell'Est, isolarono le avanguardie, e poi fecero
in modo che se ne andassero, spesero fior di quattrini in prepensionamenti e
buone uscite, per sterilizzare la fabbrica, per liberarsi non solo dei più
combattivi, ma anche dei più deboli, anziani, malati, donne con troppi figli e
troppe assenze, e a questo né noi né il sindacato riuscimmo a dare una risposta
(o forse una risposta adeguata non esisteva): eravamo abituati alla guerra di
movimento, ma quando si tratto di scendere in trincea fummo sconfitti.
Sul
sociale, la destra scatenò la guerra chimica, ad un certo punto l'eroina
comincio a scorrere a fiumi, dilagò tra i giovani, questo è un aspetto poco
indagato di quegli anni, ma che meriterebbe un po’ più di interesse da parte
degli storici che studiano quel periodo, nel caos dei fine anni settanta, in
cui esplosero tutte le contradizioni interne al movimento, non c'era più la
forza militare per contrastare il nuovo nemico, sapevamo affrontare i fascisti,
ma non un nemico invisibile che entrò nel sangue dei giovani, e fu un vero e
proprio genocidio. Alcuni anni fa con altri compagni facemmo un calcolo, e ci
accorgemmo che solo nell'aronese furono circa 80 i ragazzi che persero la vita
tra overdosi e AIDS.
L'eroina
ebbe un impatto devastante all' interno della società, divise le famiglie e i
quartieri, la destra inizio a suonare la carica, inizio la caccia al tossico,
guardandosi bene da fermare i grossisti, chiedendo legge ed ordine; credo che
la tossicodipendenza sia paragonabile al problema dell'immigrazione dei nostri
giorni, da parte della destra stessi toni stessi slogan.
D - Dopo la sinistra
rivoluzionaria hai partecipato e seguito l’evoluzione ed involuzione della
sinistra “riformista”, dal PDS al PD?
R - A questa domanda,
faccio fatica a darti una risposta compiuta, non è stata una bella esperienza;
gli ex PCI hanno vissuto quello che noi abbiamo vissuto alla fine degli anni
settanta, solo che noi - preso atto dello stato di cose - abbiamo chiuso
baracca e burattini, loro hanno scelto la via che conosciamo e forse, anzi
senza forse, è giusto così; ma francamente a me di discutere delle prossime
elezioni comunali, o di chi deve eventualmente fare il sindaco o altro, non me
ne fregava molto, non sopportavo poi gli odi personali di tutti gli ex di
turno, e la mancanza comunque di un pensiero lungo, mi hanno spinto un bel
giorno a dire è stato bello ma io scendo qui. (nota dell’intervistatore: nel 2010 il centro-sinistra non confermò
come candidato il Sindaco uscente, e fece le primarie, presentandosi poi diviso
in 3 liste concorrenti, e favorendo così un successivo lungo ed incontrastato
predominio leghista)
D - Cosa resta di quelle
lotte? Quanto è cambiato il “popolo”? Quanto si è diffuso il “populismo” (da
Berlusconi a Salvini, da Grillo a Di Maio)? C’è ancora una speranza di un mondo
migliore?
R - Benigni in una
intervista disse “al mio paese quando ci fu la crisi petrolifera del 73 il PCI
convocò una grande assemblea popolare alla Casa del Popolo per discuterne”, ecco
è questo il punto: ad un certo momento ci fu quello che la Rossanda chiamò il
silenzio dei comunisti, per la prima volta una generazione che aveva lottato,
prodotto contro-cultura, non passò il testimone a nessuno, ma si ritirò in se
stessa, forse troppo grandi erano i sogni, troppo dolorosa la sconfitta.
E
la destra, che per un decennio era stata silente, riemerse più carogna che mai:
cose che, prima, non si potevano dire (ma pensare si), furono sdoganate, idee
presenti anche nella classe operaia, contro i terroni tutti mafiosi, gli
zingari, i tossici, tutto il peggio che si nascondeva nella pancia del paese
diventò di colpo buono da pensare, buono da parlare, guardavamo la luna e intanto
le televisioni locali spargevano veleno, facemmo una battaglia di retroguardia
sulle televisioni, mentre era il caso di scendere in campo con le stesse armi e
forse ne avevamo la forza e la fantasia per farlo, l'avevamo dimostrato con le
radio libere, ma perdemmo il treno, e arrivarono Bossi e Berlusconi, che ne
raccolsero i frutti, e dopo di loro una sfilza di cialtroni che partendo da
Grillo arriva fino a Salvini, e ci metto dentro anche Bertinotti, e Renzi.
Non
dimentichiamo comunque che le teste pensanti della prima Forza Italia venivano
dalla sinistra, socialisti e non solo, anche in America le teste d’uovo del
primo Bush erano ex trozkisti, non è un caso.
Mi
chiedi come è cambiato il popolo: quello è sempre lì, solo che adesso è senza
rappresentanza, prima il grande partito chiesa dava una risposta, riusciva a
tenere insieme tutto ed il contrario di tutto, dava certezza e speranza con una
narrazione altra, poi con il suo crollo è stato buon gioco per la destra dare
delle prospettive, brutte ma prospettive.
Cosa
resta di quella stagione: nel mondo del lavoro quasi niente, da quello che
percepisco nei miei colloqui informali, così a spanne, stavamo meglio noi nei
primi anni sessanta, devo dire che i datori di lavoro di quegli anni erano per
lo più persone serie ti pagavano regolarmente, e ti versavano i contributi.
Oggi
questi imprenditori, dell'economia 2.0 o 4.0 che sia, mi sembrano dei banditi:
basta parlare con quei lavoratori delle pulizie, dei servizi itineranti vari.
Ti
faccio un esempio che dice più di mille parole, un ragazzo che conosco fa il
giardiniere pagato 5 euro l'ora; alle mie perplessità mi ha detto che il suo
datore di lavoro alla richiesta di maggiore salario ha risposto “se ti va è
cosi, se no prendo un africano che si accontenta di 2 euro”, questo è quanto.
Rimane
di quelle lotte invece, la grande spinta sociale per i diritti delle donne,
merito loro, e un grande balzo in avanti della società per alcune conquiste
come divorzio, aborto, minoranze di genere; sono forse il lascito più
importante di quella stagione, che oggi sono sotto attacco e bisogna
difenderle.
Ricordo
personale, la campagna elettorale che rammento con più piacere fu quella sul
divorzio, allora si era tutti uniti senza menate di partiti e partitini, era
progressisti contro conservatori, e la vincemmo; forse chissà torneranno a
fiorire i ciliegi.
D - Nella Tua terza ed
ultima esperienza lavorativa, al Consorzio Acque Reflue di Arona&C., e nel
Tuo tempo libero (ed oggi da pensionato), tra orticoltura, pesca e trekking,
hai avuto modo di misurarTi nel concreto quotidiano con i temi ecologici: come
è cambiato l’ambiente e quanto pensi che si possa “raddrizzarlo”?
R
- Cosa posso dire: non sono molto ottimista sulla questione ambientale, dire che
prima era meglio, non è vero: è stato negli anni del boom economico, e fino a
non molti anni fa, che abbiamo scaricato nella natura il peso del nostro
benessere; mi ricordo ancora la Vevera
solo negli anni settanta scaricava nel lago i reflui delle concerie, con delle
trote che - se le mangiavi - sapevano di cuoio.
E
non è che noi fossimo molto sensibili a questi temi: forse a parole, ma nella
realtà pensavamo che - una volta fatta
la rivoluzione - tutto si sarebbe sistemato:
Abbiamo
poi visto come il socialismo reale, e il capitalismo selvaggio, hanno distrutto
il mondo.
E
per quanto penso che sia cosa santa e giusta quello che fanno le associazioni
ambientaliste. Ma temo che sia ormai troppo tardi, la grande Madre Terra si è
stufata di noi, lei può fare a meno di noi, purtroppo noi no.
Noi
partiamo sempre dalla centralità dell'uomo che domina la natura, anche quando
siamo animati da buone intenzioni, ma non funziona così; se non impariamo che
siamo una parte del tutto, non vedo vie di uscite, perché impararlo vorrebbe
dire rinunciare al nostro modo di vivere e non credo che siamo pronti a farlo;
naturalmente spero di sbagliarmi.
D - Nella Tua formazione
personale (e di altri quadri operai sindacalizzati), nell’insieme, quanto ha
pesato la scuola dell’obbligo, la cultura alternativa collettiva (con
l’esperienza delle lotte e delle organizzazioni), oppure l’autodidattismo
individuale?
R - Tutte e tre le cose,
intrecciate tra loro: la tanto criticata scuola democristiana, che mi ha fatto
conoscere la storia, che non era solo una mera sequenza di date, ma storie
belle, storie brutte, di uomini e popoli, la geografia, che ti apriva la mente
e capivi che il mondo non finiva al ponte di Sesto, ma c'era molto di più,
l'italiano che ti faceva conoscere oltre alla grammatica, gli scrittori e i
poeti, ci parlarono di Omero,
dell'Eneide, l'Odissea, la Divina Commedia, di cui all'esame dovevi portare un
pezzo; chissà perché a me assegnarono l'Inferno…
I
nostri professori ci parlavano, sì di patria, ma anche di Europa, del mondo, e
ci stimolavano a leggere, seminavano sapere, poi se son rose fioriranno.
Poi
vi era il discutere, mi ricordo di osterie piene di fumo, e tanto vino, dove
ascoltavamo i racconti di anziani compagni che ti parlavano di resistenza,
anarchia, lotta di classe, guerra, comunismo, e noi che come spugne assorbivamo,
ed elaboravamo a modo nostro; ricordo anziani operai che sapevano a memoria le
opere di Verdi, mio padre era capace di declinare per ore le opere di un poeta
minore anarchico siciliano.
E
poi c'era la preparazione individuale: ad un certo punto poi cominciammo a
leggere anche noi, il primo libro politico che un compagno mi prestò era, il “Che
fare?” di Lenin, il secondo “Opere scelte” di Mao, capirai.
aldovecchi@hotmail.it
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