FACOLTA’ DI ARCHITETTURA, MILANO, 1968-1971: LE 2 UTOPIE
CHE ABBIAMO ATTRAVERSATO
di
Anna Maria Vailati e Aldo Vecchi
Una rievocazione, anche autocritica, su quella peculiare esperienza (dalla
Sperimentazione del ’68 alla “estraneità cosciente” del 1971), ma orientata a
coglierne elementi utopici nuovamente meritevoli di riflessione, in materia di
scuola e di scienza
Sommario:
-
premessa
-
attualità di quelle istanze
-
1963-67
-
il ’68: l’utopia realizzata?
-
il 67-68, in visione soggettiva
-
i limiti della sperimentazione
-
la questione delle materie scientifiche
-
miti rivoluzionari ed effettive trasformazioni
-
1971: un nuovo ciclo di lotte e la polarizzazione politica tra gli
studenti
-
via Tibaldi
-
epilogo
-
successive trasformazioni della Facoltà
-
APPENDICE I –
MEMORIE E
VALUTAZIONI DEI NOSTRI “FRATELLI MAGGIORI” SULLA FASE 63-68
-
APPENDICE II –
PICCOLA
ANTOLOGIA DI CRITICHE ALLA SPERIMENTAZIONE, DA SUBITO IN POI
-
APPENDICE III –
ALTRE
TESTIMONIANZE: CLAUDIA CAPURSO SULL’ANNO 66-67
PREMESSA
Già
avevamo rievocato su queste pagine “il nostro ‘68” 1, ma le recenti
discussioni, in relazione alla Pandemia, sia sulla didattica sia sulla scienza,
ci spingono ad approfondire le nostre riflessioni – anche “utopiche” – sulla
particolare esperienza (originale rispetto ad altre parallele e successive)
della facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, dal 1963 in poi, che
tra il ‘67 ed il ‘73 abbiamo anche vissuto direttamente come studenti.
L’intera
cronistoria degli avvenimenti relativi alla facoltà dal 1963 al 1974 è ben
riepilogata, con una ricca documentazione ed alcuni approfondimenti, nel testo
“La rivoluzione culturale: la facoltà di architettura del Politecnico di Milano
1963 – 1974” 2, che raccoglie
i risultati di un seminario e di una mostra svoltisi presso la Facoltà di
Architettura Civile (Milano Bovisa) nel
2009: l’intero materiale è disponibile su Internet, per cui ad esso rimandiamo per
quanto da noi non qui riassunto, così come rimandiamo al volume
“Sperimentazione dell’Architettura Politecnica” 3 a cura di
Pugliese-Serrazanetti-Bergo, del 2013, con esauriente documentazione, che si
spinge fino all’anno 2000.
La
storia delle lotte nella facoltà nel lungo periodo ‘preparatorio’ 1963-1967 ed
i prodromi della "sperimentazione” avviata nel 1968 sono meglio spiegati
inoltre, sia in un testo di Giancarlo Consonni4 del 2013, sia nel
catalogo5 di un’altra mostra, tenuta presso il Campus Leonardo nel
2011, da cui riteniamo opportuno riprodurre nell’Appendice I alcuni passi, a
firma di Marina Molon, Stefano Levi della Torre e di Raffaele Pugliese; mentre
richiamiamo, anche per una lettura integrale, il testo di Marcello De Carli,
“1967-1968 La strana sperimentazione della facoltà di architettura del
Politecnico di Milano” 6 disponibile in Internet, che in buona
misura condividiamo.
Nell’Appendice
II invece raccogliamo alcune valutazioni critiche, di allora e di poi, sulla realizzazione
della Sperimentazione, dal ’68 in poi.
E
nell’Appendice III una testimonianza personale di Claudia Capurso, in
particolare sull’anno accademico 1966-67, (cui potrebbero seguire eventuali
contributi di altri protagonisti).
ATTUALITA’ DI QUELLE
ISTANZE
Silvano
Bassetti, uno dei leader tra gli studenti della Facoltà fino al 68 (e dirigente
nazionale di Intesa e UNURI), e subito dopo militante di Lotta Continua, al
termine di una vita professionale in un ambito più serenamente riformista (e
prima di lasciarci nel 2008) ha scritto (e ci sentiamo di condividere): «Di quella stagione della mia
giovinezza porto i segni indelebili di una formazione umana, culturale e
politica che considero tra le cose più preziose e care della mia vita. Non me
ne nascondo gli errori e le contraddizioni tipici di una transizione epocale,
ma non ne rinnegherò mai gli ideali di libertà, di giustizia e di solidarietà
che ne hanno costituito la molla essenziale.»7
Paolo
Portoghesi ha recentemente così rievocato8 , cogliendone il nocciolo,
le vicende della facoltà tra 68 e
71: “… il bisogno di raccontarlo nasce dal fatto che mantiene una
imprevedibile attualità sia per quanto riguarda l’insegnamento
dell’architettura, tornato, nonostante la creazione dei dipartimenti,
all’isolamento dei corsi e agli esami nozionistici, sia per il significato di
una esperienza – troncata allo stato nascente – che si poneva il problema di
adeguare la disciplina alle esigenze della società e dell’ambiente, perché
l’architettura tornasse ad essere strumento valido per migliorare la vita degli
uomini”.
Riprendendo tale esperienza complessa cinque
decenni dopo, ci è sembrato interessante,
pur evidenziandone i limiti e gli errori, focalizzare l’attenzione in
particolare su due fasi che assunsero i caratteri dell’utopia, e cioè la
“sperimentazione didattica” del (o dal) 1968 e la critica radicaleggiante della
“estraneità cosciente” attorno al 1971:
-
sia per il nostro attuale interesse ai temi
dell’utopia, che denomina questa rivista (utopia di cui è anche importante
cogliere i contro-esiti, quando si tratti di concrete, parziali, sporche
“utopie realizzate”: come ci capita di applicare anche, ad esempio, alla
costruzione dell’Unione Europea, oppure alla difficoltosa attuazione della
Costituzione Italiana),
-
sia perché ci sembra che di questi tempi si
aprano nuovi spunti di dibattito sulla trasmissione del sapere nelle scuole,
messa in crisi dalla necessità della Didattica-A-Distanza (che comprime la scuola
come collettività operante), e fuori dalle scuole, sulla comunicazione e
diffusione della scienza, ora messe a dura prova dal complottismo populista (ad
esempio no-vax).
Per
parte nostra infatti, pur nella consapevolezza che
-
quel
progetto di autogestione era forse più valido per una scuola di élite che non
per la nascente università di massa, nelle condizioni strutturali date, e che
il volontarismo che la sorreggeva non riuscì a imporsi sulla complessa realtà,
-
quella
pratica di critica radicale andò a perdersi nelle secche dell’estremismo
settario,
ci sembra di dover
segnalare che gli assi fondamentali di quelle utopie – sfrondati dalle
contingenze storiche – e cioè la didattica induttiva attraverso la ricerca di
gruppo e interdisciplinare e l’approccio critico anti-gerarchico possono
tornare validi a fronte dei problemi odierni della scuola e dell’università (anche se oggi poco si
parla di ugualitarismo e la ricerca è vista soprattutto come applicazione da
valorizzare nelle “startup”).
Problemi
accentuati dalla Pandemia e dai conseguenti rimedi quali la Didattica-A-Distanza:
-
inadeguatezza
delle scuole medie e superiori ad assicurare l’effettivo diritto allo studio
per l’insieme complessivo dei potenziali studenti (abbandono scolastico, e
gravissimo fenomeno delle frange che né studiano né lavorano),
-
incapacità
del sistema universitario nel formare laureati al livello della media europea
(pur con alcune punte di eccellenza),
-
frammentazione
dei profili formativi (in particolare ci sembra assurdo che architettura e
pianificazione non abbiano in comune il primo triennio) e parcellizzazione
degli insegnamenti (soprattutto con il meccanismo dei ‘crediti’).
La
Didattica A Distanza, che può svilupparsi come importante ausilio tecnico e
comunicativo, rischia di sostituirsi alla essenza storica dell’Università, che
è la comunanza e la “disputatio”, rafforzandone invece l’aspetto deteriore di “esamificio
a partecipazione individuale”, ed offrendo a fuori-sede e studenti-lavoratori
solo un buon collegamento telematico anziché le necessarie borse di studio ed
alloggi universitari.
Vedendo
questi rischi di una chiusura efficientista (anche nel Piano Nazionale di
Ripresa e Resilienza) ci permettiamo di
rilanciare, come utopia praticabile, a cinquant’anni dal 68-71 (e proprio
riflettendo auto-criticamente sui limiti dei quelle esperienze utopiche), una rivalutazione del ‘pensiero critico’,
attento alla realtà sociale (anche attraverso l’alternanza di studio e lavoro,
non solo nell’empireo delle teorie) e mirante alla formazione di persone e
cittadini, non solo di tecnici e specialisti nelle singole discipline.
Ne
abbiamo avuto parziali conferme sia dalle riflessioni dell’ex Ministro
dell’Istruzione Fioramonti 9, sia dalle vivaci contestazioni di un
gruppo di laureande della Normale di Pisa 10 https://www.youtube.com/watch?v=QFLMT_55FaQ
Più
scontata forse la sintonia con quanto sulla scuola (e in particolare sulla
D.A.D: tema su cui pertanto non ci dilunghiamo) ha scritto di recente per
Utopia21 Claudia Capurso 11, che visse come noi buona parte di quel
periodo 68-71 (vedi anche Appendice III).
L’argomento
D.A.D. è approfondito in tutti i suoi aspetti contradditori anche da Antonio
Balistreri, nella “Rubrica Filosofica” su questo stesso numero di Utopia21,
nonché più ampiamente nel testo “Solitudine digitale” 12.
D’altro
canto ci pare di assistere, nel vario delirio delle teorizzazioni No-Vax (e
ancor peggio No-Green-Pass), una caricatura del “pensiero critico”,
inteso come la tendenza alla continua ridiscussione e verifica dei presupposti
sociali e politici di ogni affermazione “scientifica” e di ogni dogma
“disciplinare”, nella convinzione che la
effettiva scientificità del sapere non risieda in una sua supposta
“neutralità”, bensì nella trasparenza sulle sue fonti teoriche, sulle filiere
delle elaborazioni intermedie e finali, sui mezzi materiali cui si appoggia,
sui metodi di organizzazione sociale in cui si fonda: cioè che il pensiero
possa anche essere forte, ma solo se consapevole della sua intrinseca
debolezza.
Nel
difficile confronto con tali derive complottiste, esercitando anche qui quanto
possibile della razionalità e della radicalità intellettuale, a nostro avviso è
però importante non buttare il bambino con l’acqua sporca, e pertanto difendere il diritto a diffidare dalle verità
preconfezionate dal potere; perché se è aberrante vedere complotti ovunque, è
pur vero che taluni complotti esistono, e vanno demistificati con paziente
lavoro di ricerca e controinformazione (da ‘big pharma’ a ‘big data’ e “Cambridge
Analytica”, dalla ‘strategia della tensione’ alla grande truffa del ‘diesel
ecologico’, dalle “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein e alle
“fraterne” invasioni brezneviane).
D’altronde,
se tutto è complotto, i veri complotti non si distinguono più: paradossalmente,
si potrebbe sospettare che le teorie omni-complottiste siano ordite dai veri
complottisti…
1963-1967
La
contestazione studentesca ebbe inizio il 17 gennaio 1963, con una petizione
degli studenti del 4° anno; in relazione ai “bisogni di futuri progettisti … a una
preparazione professionale di
rinnovamento e di ricerca” 3, i 68 allievi
chiedevano che gli insegnamenti
progettuali avvenissero previa motivazione e discussione dei temi, tramite
libere aggregazioni degli studenti in gruppi con scelta dell’Assistente,
partecipazione alla ricerca sui contenuti, con minori vincoli temporali e di
elaborati grafici e non come mero controllo dei tentativi progettuali.
Di
fronte alla chiusura dei professori interessati, la protesta si trasformò in
“sciopero attivo” e a metà febbraio divenne
la prima occupazione di una facoltà universitaria (seguita subito dopo da
Architettura di Roma e di Torino) con una
piattaforma che si era allargata in denuncia dell’autoritarismo didattico,
richiesta di alternative culturali nella scelta dei docenti principali,
confronto sui problemi della società, cogestione degli Istituti.
L’occupazione
terminò dopo tre settimane, a fronte dell’impegno del Rettore ad istituire una
Commissione Paritetica di studio sui punti rivendicativi degli studenti.
Nei
quattro anni seguenti la spinta riformista degli studenti, cui si aggiunse dal
dicembre ‘66 un lungo sciopero degli “assistenti volontari” (precari non
retribuiti, ma indispensabili per gestire le esercitazioni), ottenne qualche risultato:
-
sulla minor rigidità di
taluni corsi propedeutici (ad esempio le prove ex-tempore di rilievo dal vero),
-
sul rinnovamento del
corpo docente,
con il ritiro dei professori più accademici e l’immissione di esponenti – ormai
non più giovani – del Movimento Moderno, come Rogers, Albini, Belgiojoso e
Bottoni, e poi anche – come incaricati – di figure emergenti come Gregotti-Rossi-Canella,
-
sul contestuale
aggiornamento dei contenuti e del linguaggio, più allineato con le
Riviste e con istituzioni più avanzate, come la Triennale,
-
sulla introduzione del
lavoro di gruppo
nei principali insegnamenti progettuali, con qualche motivazione e
approfondimento sui temi delle esercitazioni,
ma non aveva conseguito
nessuna revisione sostanziale del Piano di Studi (vedi anche Claudia
Capurso in Appendice III).
All’inizio
del 1967 il preside Carlo De Carli – per comporre le spinte derivanti da
studenti, assistenti e da ultimo dai docenti incaricati – organizzò un seminario generale della
facoltà, da cui invece scaturì una nuova occupazione da parte degli studenti,
che avevano consolidato una “dirigenza”, incardinata negli organismi
rappresentativi dell’UNURI (le principali correnti,
anche a livello nazionale erano UGI, socialcomunisti – AGI, laici - Intesa,
cattolici) ed erano cresciuti di numero di anno in anno (da meno di cento
iscritti al primo anno a 400 nel 1967).
Le
nuove rivendicazioni maturate nell’occupazione del 1967 e sommariamente
recepite in marzo dal Consiglio di Facoltà (soprattutto come promessa per
l’anno successivo), si configuravano come una
svolta sostanziale nell’assetto degli studi, non più finalizzato ad una figura
professionale rinnovata, ma anzi ad una critica dell’immagine tradizionale del
professionista, e così articolata:
-
coincidenza tra ricerca
e didattica, partendo dai problemi della società, in ottiche interdisciplinari,
-
degerarchizzazione del
corpo docente (“docente unico a tempo pieno”) e libera ri-aggregazione di docenti e
assistenti (e apporti esterni) in “proposte di ricerca”,
-
libera scelta di adesione
ai “gruppi di ricerca” da parte degli studenti, dal 1° al 5° anno,
senza vincoli di percorso accademico (né quindi di approcci propedeutici),
-
cicli di “lezioni ex
cathedra” all’intera
facoltà,
-
autovalutazione
collettiva
dei risultati di ogni ricerca e seminari di confronto tra tutte le ricerche
-
conseguente
riorganizzazione degli Istituti e
delle risorse finanziarie.
Anche se negli
orizzonti politici degli studenti non prevalevano ancora parole d’ordine
“rivoluzionarie”, risultava evidente la radicalità della proposta di
“autogestione”,
che si inquadrava nella maturazione nel movimento degli studenti, non solo ad
Architettura, verso orizzonti di contrapposizione all’autoritarismo accademico
ed alla selezione scolastica, di cui si iniziavano a comprendere i gli aspetti
“classisti’.
Spinte che invece il
Consiglio di Facoltà tendeva a ricomporre dentro i labili confini della “cauta
sperimentazione” concessa da una concisa circolare del ministro Gui del luglio 1967 (e poi
di poco ampliata nel marzo 1968).
Sperimentazione
poteva significare una aperta ricerca verso nuovi assetti didattici, anche se il
Governo Moro (centro-sinistra “organico”, con DC, Socialisti e partiti minori)
intendeva incanalare le proteste attraverso una Commissione nazionale tra le
diverse facoltà di Architettura (e difendere la sua ambiziosa riforma
complessiva dell’università che – avversata dal nascente movimento studentesco
– fu però affossata in Parlamento nella primavera del 1968 da resistenze
interne alla maggioranza di centro-sinistra; resistenze probabilmente connesse
ai centri di potere delle baronie accademiche).
IL ’68: L’UTOPIA
REALIZZATA?
L’anno
accademico 1967-68 iniziò piuttosto confusamente: i docenti delle materie
“scientifiche” avviarono i loro corsi con gli orari tradizionali, mentre il
resto della Facoltà attendeva l’attuazione della “sperimentazione” promessa, che fu varata da gennaio, con la
proclamazione (teorica) di tutte le innovazioni richieste dagli studenti e con
il seminario di presentazione delle “ricerche”: lasciando però in sospeso
la conciliazione con i docenti scientifici (ed altri pochi dissenzienti), cui
rimanevano riservate ogni mattina le prime 2 ore di lezione.
Il
ventaglio delle proposte di “ricerca”, allora raccolte nel “Diario Politico
1967-68 – volume 1°” e ben documentato anche
nel testo di Pugliese&C.3 da pag. 85 a pag. 97, meriterebbe una
apposita “ricerca” di approfondimento. Marcello De Carli (al cui testo6
rimandiamo ancora per una comprensione più ampia di quei passaggi) lo definisce
“un insieme eterogeneo, che fotografava la complessità della cultura
degli architetti del tempo, ed anche la sua difficoltà”.
Si
trattava di una gamma di opzioni culturali, tra strutturalismo e marxismo, con
proposte operative che oscillavano dalla riproposizione dei canoni del
“Movimento Moderno” (e della didattica progettuale per gruppi, già avviata
negli anni precedenti) alla consapevolezza dell’inizio della crisi di tali
canoni, ed in generale con apertura
al dibattito sociale e politico su città e territorio.
Ci
sembra da sottolineare una sostanziale prevalenza dei temi urbanistici:
riteniamo infatti di poter leggere come tali, ad esempio, sia lo “spazio
primario” degli “Interni” di Carlo De Carli, che la “Architettura della Città”
di Aldo Rossi, come ancora i vastissimi percorsi meta-progettuali di Guido
Canella.
Mentre
le altre facoltà venivano occupate in tutta Italia, Architettura di Milano
sembrava non averne bisogno, perché era già oltre l’autoritarismo accademico:
ma poi – semplificando nella narrazione una vicenda complessa – il mancato
accordo con il poderoso baluardo conservatore
“Scientifici”-Ingegneria-Rettorato (spalleggiato dai nuovi governi Leone e
Rumor), portò ad una ‘occupazione operosa’, in cui la
sperimentazione – monca di scientifici e reazionari – si svolgeva sotto la
direzione della “Assemblea dei Firmatari”, cioè di tutti gli studenti,
assistenti e docenti che aderivano alla sperimentazione (e accettavano
l’occupazione).
In quella fase la
partecipazione alle assemblee generali era assai elevata, e nel movimentismo
assembleare si scioglievano di fatto sia le storiche associazioni
AGI-UGI-Intesa, sia le scarne presenze dei partitini dell’estrema sinistra
ante-68 (Falce-e-martello, Trotskisti, PSIUP); tendenza opposta a quanto
accadrà dopo il ’68, con la frammentazione in gruppi politici e nuovi partitini
(mentre il P.C.I. tendeva a conservare, ma non senza difficoltà, una unità
organizzativa nella “cellula Ho-Chi-Minh”).
Più
difficoltoso risultò invece il tentativo di decentrare il dibattito politico-culturale
all’interno dei “gruppi di ricerca”, dove prevalevano le personalità dei
docenti, le avanguardie del movimento erano variamente disperse, e gli studenti
‘di base’ faticavano a rendersi protagonisti.
Le
alterne fasi di scontro politico-istituzionale si conclusero nel silenzio
agostano con l’annullamento di tutti gli esami “sperimentali” e auto-gestiti e
con la destituzione da parte del Ministro Scaglia del preside Carlo De Carli,
troppo “morbido” verso gli studenti; a seguire nuove mediazioni – gestite dal
nuovo preside Paolo Portoghesi nei tre anni successivi –, ed altri scontri,
culminanti nel 1971, come diremo più avanti.
IL 67-68, IN VISIONE SOGGETTIVA
Ci sembra interessante
traguardare queste vicende anche attraverso la nostra personale esperienza: ci
siamo trovati, abbastanza per caso, come studenti del primo anno (si usava
ancora il termine goliardico di “matricole”: i militanti dell’UNURI però ci
difendevano dal nonnismo) nell’autunno del 1967, alle prese con una svolta dai
caratteri utopici o rivoluzionari (utopia e rivoluzione, però, immaginate prima
di noi e guidate da altri).
In particolare, ad un
certo punto, dopo aver assaggiato brevemente i corsi tradizionali, anche noi
“matricole” (che – talora con fatica – avevamo appena scelto l’indirizzo di
studi universitario) ci trovammo davanti alla decisione se aderire alla
sperimentazione (oppure rimanere fuori con i docenti “scientifici” e/o
tradizionalisti, poi definiti “reazionari”), e nel contempo all’imprevista
scelta del “gruppo di ricerca” da frequentare dentro la “sperimentazione” che
rivoluzionava l’impostazione didattica:
in vetrina c’era l’intera facoltà (docenti scientifici e/o reazionari
esclusi) con la presentazione dei diversi programmi, spesso fumosi e
improvvisati o comunque difficili da capire per i neofiti, ancor più sguarniti
(in specie se provenienti dai paesi di provincia) nel capire i sottostanti
sistemi di potere ed i possibili percorsi di qualificazione personale: la
maggioranza dei nostri compagni di corso, per prudenza, si ancorò ai docenti
che comunque sarebbero capitati al primo anno; una minoranza più spericolata
(noi compresi) si buttò invece all’avventura, ritrovandosi in gruppi formati in
prevalenza da studenti degli anni superiori.
Quanto sopra può
spiegare – almeno in parte – l’effetto ”Fabrizio Del Dongo alla battaglia di
Waterloo” che ebbe per molti di noi il navigare nella facoltà tra 67 e 68,
senza capire bene cosa stesse succedendo in una serie di situazioni, talora
caotiche e frustranti, e talora elettrizzanti.
ANEDDOTO
1 -
Per noi,
sotto il profilo formativo, quel ’68 fu una esperienza in cui riuscimmo a
capire, partecipando alla “coerenza regionale” del gruppo Bottoni-D’Angiolini- Meneghetti,
che l’urbanistica era, tra l’altro:
- lo
studio intenso e selettivo dei dati statistici, ma anche di informazioni
eterodosse, da varie fonti, giornalistiche e aziendali (e quindi anche di parte
“padronale”),
-
l’apertura interdisciplinare, soprattutto verso l’economia (“Mondo economico”
era lettura obbligata), la demografia (leggendo Livi Bacci), la geografia
(ascoltando di persona – ma non sempre capendolo – Lucio Gambi): i problemi
prima degli steccati disciplinari,
-
l’analisi delle forze sociali in campo (non solo padroni e operai, ma anche già da allora “dove vanno i piedi
dei consumatori” e come influiscono sull’offerta), a livello territoriale, sia
macro che micro, che determinano il divenire dei luoghi, spesso più dei “piani
urbanistici” (e certo più delle “buone intenzioni”),
- una
attenzione non rituale alla lotta di classe, nelle sue varie forme (compresa
l’acculturazione, le rimesse degli emigranti, il lavoro femminile domestico e a
domicilio…),
- l’uso
“politico” degli strumenti tecnici e giuridici, di cui essere, per quanto
possibile, padroni e non schiavi,
-
l’importanza della gestione/applicazione dei piani urbanistici, rispetto alla
mera fase di progettazione degli stessi,
- la
non-separazione tra “urbanistica” e “architettura” (ma anche tra “struttura” e
“sovra-struttura”: necessario però ricordarsi la differenza tra questi poli
dialettici).
I LIMITI DELLA
SPERIMENTAZIONE
Questa
esperienza ‘da matricole’ ci consente anche di esprimere (oggi) una prima critica
di fondo a quella “sperimentazione”, perché
la partecipazione effettiva del singolo studente sia al nuovo modo di
trasmettere il sapere, maieutico ed induttivo, sia alla stessa vita politica
della facoltà e del movimento studentesco, fu molto differenziata in funzione
delle condizioni soggettive pregresse di ognuno di noi, premiando chi già
aveva più strumenti per capire e decodificare i linguaggi (e gli atteggiamenti)
e marginalizzando chi meno ne aveva (per tacere delle discriminazioni “di
genere” nel maschilismo intrinseco allora all’ambiente accademico e a quello politico).
Il
nodo di fondo ci sembra questo: il vecchio ordinamento
aveva una sua logica selettiva di trasmissione del sapere: il nozionismo dei corsi
tradizionali, la fatica delle esercitazioni grafiche, l’imitazione per
tentativi dei ‘maestri’ negli esercizi di progettazione (si veda nel dettaglio
la citazione da Consonni4 nell’Appendice I). Chi non si conformava
rimaneva fuori, chi ce la faceva diveniva “conforme”. La pedagogia era cosa per
l’infanzia. “Lettera a una professoressa” fece riflettere sulla dimensione
sociale della selezione scolastica e della pedagogia: ma da questa riflessione non nasceva automaticamente una nuova
pedagogia adatta all’età degli universitari, né tanto meno alla trasformazione
dell’Università in scuola di massa. L’attenzione era sul “cosa” insegnare, e
non sul “come”.
Altre
critiche sull’attuazione della sperimentazione del 1968-1971 ci sembrano
importanti retrospettivamente (anche per rivalutare invece gli elementi
essenziali di quella proposta), acquisendo in parte elementi di valutazione
espressi da allora in poi da diversi soggetti, che raccogliamo nella Appendice
II, ma tenendo conto che in sé il
progetto della sperimentazione non aveva predeterminato nessun criterio di
successivo monitoraggio (il che ne limitava alquanto la serietà ‘scientifica’):
anche se – oltre alle massicce censure che arrivavano dall’esterno, dal fronte
‘conservatore’ (e che in qualche misura spingevano i “firmatari” ad arroccarsi
sulle posizioni assunte) – il dibattito interno era ricco di ‘critiche ed
autocritiche’, però finalizzate ad esiti divergenti (di cui riferiamo più
avanti) più che non ad una accorta
correzione di rotta del vascello sperimentale.
Le
criticità in questione riguardano tutti gli elementi fondamentali della
sperimentazione stessa, elementi come sopra tratteggiati nel paragrafo “63-67”:
-
non era ben chiaro cosa
intendere per “ricerca” nei campi propriamente umanistici e progettuali
dell’architettura;
non sempre era esplicito quali fossero gli obiettivi dei docenti, se già
avessero in tasca il risultato da trovare cercando, se avessero una bussola
metodologica, se ci facessero cercare tanto per cercare;
-
mancava una concreta
alternativa didattica alla vecchia “propedeusi”, con la successione
obbligata delle materie: sia per carenza generale di metodologie pedagogiche e
comunicative (vedi sopra), sia per la presunzione demagogica che
l’atteggiamento maieutico, di fatto adatto alle élites studentesche, funzionasse
comunque con la attesa (ma incompresa) “università di massa”;
-
l’attesa apertura ai
problemi della società, sovrapposta ad un vecchio ordinamento (che aveva mal
digerito l’originaria confluenza tra “Ecole de Beaux Arts” e Ingegneria e
rimaneva scomposto tra “materie scientifiche” e discipline progettuali), allargò molto i confini della politica e
dell’urbanistica (ambedue si occupavano della “polis”), ma non portò, in generale, ad una effettiva
rivisitazione, nel merito, né della “scienza neutrale” del Politecnico (vedi
oltre) né della tautologia del gesto
architettonico, né delle concrete trasformazioni tecnologiche allora in atto;
-
nei
fatti, all’interno dei gruppi di ricerca – anche per le carenze di organico ed i
connessi problemi di inquadramento professionale, vedi sotto – pochissimi docenti si occupavano di far
ambientare e di coinvolgere gli ultimi arrivati, delegando tutt’al più tale
compito agli studenti più anziani: ma il mito castro-maoista dei ‘maestri scalzi’
nascondeva di fatto la stratificazione gerarchica degli studenti e la
formazione dei cosiddetti ‘mini-docenti’;
-
parimenti non
risultava sempre alla portata di tutti quali fossero i nodi problematici del
dibattito disciplinare; a maggior ragione nei rari momenti di confronto al
di fuori dei singoli gruppi (presentazione delle ricerche; seminari di fine
anno e simili: meglio le poche “lezioni ex cathedra all’intera facoltà da parte
dei più venerati maestri, se si riusciva a trovare posto in aula: pessimi gli
audio-collegamenti ad altre aule, primi esperimenti di “didattica a distanza”);
viceversa poteva accadere che gli allievi più marginali si impratichissero solo
con alcuni segmenti del lavoro di ricerca (ad esempio, l’elaborazione dei dati
sui “flussi di traffico”), subendo una parcellizzazione del sapere diversa da
quella del vecchio piano di studi e più simile (ma forse anche positivamente,
in potenza) a quella del processo produttivo;
-
lo slogan del “docente
unico”,
pur consentendo l’emancipazione (pur rischiosa) di una parte dei docenti
subalterni dal ‘barone’ di storico riferimento, non poteva essere applicato senza uno scardinamento radicale degli
assetti giuridici ed economici delle varie ‘carriere’ e dei bilanci di Istituti
e Facoltà (cioè non era risultato praticabile “il socialismo in una sola
facoltà”);
-
la
libera aggregazione dei docenti (che non garantiva l’interdisciplinarità,
spesso ridotta ad atteggiamento volontaristico) e la piena libertà di scelta
degli studenti, validissima per superare il vecchio regime, non consentivano di configurare nuovi
percorsi formativi con un senso compiuto (anche sperimentale), malgrado i
tentativi di classificare e gerarchizzare
le ricerche, anche a tal fine, più volte tentati;
-
il
ripetersi per alcuni anni della libertà di iscrizione degli studenti ai vari
gruppi di ricerca, inoltre, mentre scardinava antichi vassallaggi accademici, costituì di fatto una sorta di “mercato
anarco-liberista”, che premiava le aggregazioni dei docenti più prestigiosi
(oppure meglio aggregati).
Nell’insieme, il
picconamento del vecchio assetto selettivo non aveva impedito la nascita di
nuovi meccanismi selettivi.
Più
difficile ci sembra, invece, una valutazione sui risultati culturali della
Sperimentazione: riportiamo in proposito – senza sposarlo - un giudizio
positivo di Marcello De Carli 6 (in qualche misura confermato da
Bernardo Secchi nel 2013 3, vedi Appendice II): “La
crescita di una scuola di architettura e urbanistica milanese, con più
protagonisti, che ha avuto, per un certo periodo, un ruolo di avanguardia
internazionale e, sempre, un ruolo rilevante nel dibattito culturale italiano.
Negli anni ‘70 e ‘80 la scuola di architettura milanese, quella che aveva
partecipato all’avvio della Sperimentazione (compresa la diaspora Veneziana), è
stata un punto di riferimento per il dibattito culturale internazionale (in
particolare Rossi, Canella, Gregotti e i loro epigoni). La Sperimentazione
aveva contribuito a liberarli, nell’università, dalle gabbie dei corsi …. La
produzione di ricerche che hanno avuto un impatto nella cultura architettonica
ed urbanistica e nelle trasformazioni urbane. Anche in questo caso uso una
sineddoche: la mitica (per chi l’ha seguita) ricerca sul nuovo insediamento
universitario in Calabria, diretta da D’Angiolini e Canella; gli studi a
sostegno delle lotte per la casa, condotti da tanti gruppi, in particolare, a
Milano, dalla scuola di Campos Venuti; poi certe ricerche sulla città degli
allievi di Rossi.”
Più
difficile ancora, ci sembra, misurare il risultato della Sperimentazione in
termini di formazione di quelle annate di laureati, sia riguardo alle capacità
professionali che alla effettiva attitudine critica: una misurazione
(sociologica e antropologica) in cui forse nessuno si è misurato. Sicuramente
molti neo-laureati, a fronte del restringersi degli spazi per la libera
professione, si sono ritrovati ad insegnare nelle scuole medie e superiori;
mentre taluni hanno sviluppato i talenti più diversi, da Gigliola Cinquetti a
Stefania Casini, da Maurizio Nichetti a Gabriele Basilico…
Una
ulteriore valutazione di fondo che ci sentiamo di avanzare è la seguente: era probabilmente eccesso di utopia pensare
che l’atteggiamento volontaristico di apertura ai problemi della società
esterna comportasse un cambiamento strutturale della Facoltà, senza rendersi
invece conto che contestualmente era la stessa società esterna (con i suoi
meccanismi sociali intaccati ma non ribaltati dai movimenti) a condizionare e rimodellare il microcosmo
universitario.
LA QUESTIONE DELLE
MATERIE SCIENTIFICHE
Gli
insegnanti delle ‘scienze dure’ (matematica, fisica, scienza delle costruzioni,
ecc.), al di là delle scelte soggettive dei singoli docenti, furono bollati
come reazionari perché non accettavano il cambiamento, soprattutto riguardo
alla sequenza concatenata dei corsi (da qui l’espressione “catenaccio” per
indicare l’impossibilità di iscriversi agli anni successivi senza aver superato
taluni esami), che – di propedeusi in propedeusi – avrebbero disvelato la loro
pratica utilità per la formazione professionale solo al culmine dell’iter
selettivo (con Fisica tecnica e con Tecnica delle Costruzioni).
Pertanto
una ridiscussione dei contenuti non era oggettivamente facile (come dimostrava
anche la resistenza delle Facoltà di Ingegneria e di Scienze ai più blandi
tentativi di contestazione da parte dei rispettivi allievi).
Dopo
l’iniziale demonizzazione dei “reazionari”, nei vari tentativi di compromesso
tra le due ali della facoltà, oltre alla semplice coesistenza (raramente
pacifica), con i vecchi corsi e gli esami tradizionali, una parte dei docenti
scientifici si rese disponibile o ad una sorta di mini-corsi di recupero
facilitati oppure ad un volonteroso accodamento od imitazione alle “ricerche
per problemi”, dove l’analisi matematica oppure la scienza delle costruzioni
erano coinvolte, talora seriamente ed altre pretestuosamente, per mostrarne
l’utilità pratica e farne assaggiare agli studenti gli specifici linguaggi .
Mancò invece – a nostro
avviso – sia dall’interno del campo “scientifico” sia da parte del movimento di
contestazione, l’assalto al cielo della scienza stessa, per verificarne o
falsificarne i presupposti logici e didattici; come in parte rilevato, in un
documento (minoritario) dell’ottobre 1969 da parte dell’ex-preside Carlo De
Carli 3: “…dobbiamo riconoscere che le materie
scientifiche [tradizionali] trattate in Facoltà sono fittizie: cioè artificiose
… non realmente utili al farsi dell’Architettura. … forse perché le ‘vere’
discipline scientifiche si sono già proiettate lungo campi … troppo lontani
dalle piccole pagine didattiche ancora oggi in minuta funzione di isolato
nozionismo nella Facoltà di Architettura…”
MITI RIVOLUZIONARI ED
EFFETTIVE TRASFORMAZIONI
La
rapida propagazione dei movimenti di contestazione, dapprima a gran parte delle
università e poi alle scuole medie superiori e ad altri ambiti istituzionali, e
la ripresa delle lotte sociali nelle fabbriche e nei quartieri, comportarono
una diffusione di ideologie rivoluzionarie, più o meno connesse con la
tradizione marxista-leninista o con originali apporti ‘operaisti’.
In
particolare nella nostra facoltà, mentre
parte delle avanguardie studentesche si ponevano il problema del rapporto con
le fabbriche ed i quartieri, e trascuravano come arretrate le problematiche
specifiche degli studenti (abbandonando inoltre ogni interesse a guidare e
sintetizzare la sperimentazione conquistata), si assisteva anche ad una fuga in avanti astrattamente ideologica nel
dibattito tra i docenti, così sintetizzato in una delibera del Consiglio di
Facoltà del dicembre 1968: “… la prima [posizione] muove dalla
distinzione tra obiettivi della classe dominante e obiettivi della società
ritenendo che verso questi ultimi deve essere indirizzato il compito di
istituto … riconoscendo produttivo la scontro tra le posizioni di chi
identifica la società con la classe lavoratrice e quelle di chi la identifica
con la massa dei lavoratori-consumatori, la seconda ritiene illusoria questa
prospettiva e nega la possibilità di una ‘scienza rivoluzionaria’ che si
sviluppi accettando in pieno la istituzione borghese ….di qui l’ipotesi di una
università antiistituzionale … in senso funzionale allo sviluppo della lotta di
classe”.3
Nelle conclusioni del
Consiglio di Facoltà, che intendeva lasciare aperto il suddetto confronto, si
dichiarava comunque che gli “Obiettivi della Facoltà” includono quello di “Negare esplicitamente il suo ruolo di
formazione professionale”.
Obiettivo confermato
all’inizio del 1970, anche se contraddittoriamente affiancato da un
(improvvisato) elenco di 8 “sbocchi
lavorativi … nelle condizioni attuali del mercato
edilizio ed urbanistico e tenendo conto delle sue prevedibili trasformazioni a
breve scadenza”,
sbocchi tra cui da ultimo veniva ripescata anche la “libera
professione organizzata in modo tradizionale” 3. Il Consiglio di Facoltà
presentava una riorganizzazione mediatoria rispetto agli “scientifici”, anche
sfruttando una parziale liberalizzazione dei piani di studi introdotta da una
parziale riforma legislativa, ma riconosceva la centralità di alcuni gruppi di
ricerca (Albini, Bottoni, Campos Venuti, Canella, Magnaghi, Rossi); 5 dei quali
promossero autonomamente un seminario di confronto generale, per superare la
‘ghettizzazione’ dei singoli gruppi di ricerca, confermando una discriminante
“anti-professionalistica” (ma senza conferire effettive basi materiali alle
ipotesi di una “committenza alternativa”).
(Ci permettiamo però di
segnalare ex post che gran parte di quel corpo docente, nel frattempo, anche a
causa della mancanza attuazione delle assunzioni come “docenti unici ed a tempo
pieno”, continuava a gestire i propri studi professionali e ad accettare – o
sollecitare – incarichi da soggetti ‘borghesi’ e ‘istituzionali’).
Nel
frattempo avvenivano significative modificazioni nella composizione e nel
comportamento della massa degli studenti (connesse anche al fisiologico
ricambio annuale):
-
un ulteriore aumento
quantitativo degli iscritti, e dall’anno 1970-71 anche la liberalizzazione
degli accessi provenendo
da qualunque corso delle medie superiori (in particolare si affacciarono
numerosi geometri in età adulta, lavoratori dipendenti oppure liberi
professionisti, cui la Facoltà offrì l’opzione
di appositi corsi serali);
-
una disaffezione alla
frequenza,
agevolata dalla caduta dei meccanismi di controllo fiscale e dalla facilità
degli esami di gruppo, e incentivata dai lungi periodi di stasi della
didattica, derivanti sia dalle endemiche rivendicazioni dei docenti subalterni,
sia dalle frequenti contrapposizioni istituzionali e politiche;
-
una conseguente minor
rappresentatività delle assemblee (causata anche dalla ritualizzazione del
linguaggio politico e dalla tendenza alla autoconservazione delle
‘avanguardie’, senza effettivo coinvolgimento della massa e dei singoli
studenti);
-
una crescente
stratificazione gerarchica all’interno dei gruppi di ricerca, con abbarbicamento
dei mini-docenti (e futuri assistenti) ai rispettivi referenti (ovvero ai nascenti
‘nuovi baroni’): con il rischio di perdere, in una nuova acquiescenza verso le
nuove gerarchie accademiche, quella simpatica sfrontatezza che – pur con il
rispetto dovuto alla buona educazione, che non mancava - gli studenti “rivoluzionari” avevano assunto
nel trattare da pari a pari con i docenti.
Come
ha osservato Marcello De Carli 6: “Nei primi
anni ‘70, a testimonianza
dell’inesorabile meccanica dei rapporti sociali, era curioso vedere come il
clima di generale amicizia che univa gli studenti di architettura, quando ex
studenti diventavano docenti precari, si trasformasse in aspri conflitti,
ciascuno vestendo la divisa della propria tendenza culturale e giustamente lottando
per un posto al sole in duro antagonismo con gli altri.”
1971: UN NUOVO CICLO DI
LOTTE E LA POLARIZZAZIONE POLITICA TRA GLI STUDENTI
L’ampliamento
della base sociale degli studenti indusse nel 70-71 l’estensione tardiva di
qualche forma specifica di contestazione alla selettività degli esami anche
nella facoltà di Ingegneria e nelle vicine Facoltà Scientifiche della Statale
di Milano, che attorno al 68 erano state coinvolte più marginalmente e solo
idealmente dalle agitazioni studentesche.
Su questo sfondo di
nuovo protagonismo degli studenti a Città Studi 17, esplose la
contraddizione relativa al “presalario” (borsa di studio fino ad allora non
‘meritocratica’).
Per
effetto delle tendenze demografiche e delle spinte sociali, nonché della cosiddetta
‘liberalizzazione degli accessi’ (di cui sopra) aumentavano il numero delle
richieste del pre-salario, fino ad allora un diritto ‘automatico’ commisurato
al reddito familiare e subordinato ad un minimo di prestazioni scolastiche:
improvvisamente la norma – già in parte resa più restrittiva riguardo alla
distanza per essere classificati “fuori sede” – fu piegata in termini decisamente
selettivi, restringendone l’assegnazione nei limiti degli importi complessivi in
precedenza stanziati.
Di
fronte alle manifestazioni studentesche, alquanto partecipate e vivaci, con
l’occupazione prima del Rettorato e poi del “Calcolatore del Politecnico” (uno
spazio di circa 400 m2, refrigerato e però poco presidiato, che aveva potenze
di memoria paragonabili ad un solo cellulare di oggidì, ma costituiva un centro
di potere nascente negli assetti del Poli), la risposta delle Autorità fu
totalmente negativa riguardo alle rivendicazioni ed invece di prudente ‘sganciamento
tattico’ riguardo al calcolatore, il quale infatti, approfittando ancora
dell’Agosto (quando anche i militanti andavano al mare), fu discretamente
smontato e deportato in altro luogo più sicuro, collegandolo via cavo.
E’ da notare che in
Italia un vero welfare per il diritto allo studio non è mai stato ripristinato,
ed è solo ora promesso con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
Nel
contempo era maturata, tra gli studenti politicizzati rimasti nelle Università
milanesi, una polarizzazione ideologica sulle tesi emanate dal gruppo dirigente
presso la Statale di via Festa del Perdono (facoltà giuridiche e umanistiche),
che preludevano ad una stretta organizzativa diventando, con le maiuscole,
“Movimento Studentesco” (di Capanna, per intendersi); polarizzazione che ad Architettura si trasformò in scissione, con la
nascita del Collettivo Autonomo (cui noi aderimmo, non più matricole, ma
militanti consapevoli). Le “divergenze
tra il compagno Capanna e noi” 17 riguardavano essenzialmente la
specificità del neo-capitalismo, con le sue capacità di mediazione e
coinvolgimento, mentre le Tesi di Capanna-Cafiero-Toscano&C. ripetevano una
analisi leninista classicheggiante contro i “rentiers” (che forse sarebbe
tornata più utile a fine secolo), in cui tutte le forze produttive erano buone,
e perciò occorreva schierarsi con i
docenti progressisti (“uso parziale alternativo” del sapere accademico) anziché
sviluppare una critica di classe anche al
neo-potere accademico; in sovrappiù tra i Capannei aleggiava una
rivalutazione di Stalin, probabilmente ereditata da una certa tradizione della
federazione milanese del PCI.
L’UTOPIA DELLA
“ESTRANEITA’ COSCIENTE”
Quanto
sopra tende ad inquadrare il secondo
“momento utopico” che attraversammo dopo la “sperimentazione del 68” e cioè il
tentativo di critica radicale all’istituzione scolastica, insito nella linea
del Collettivo Autonomo di Architettura, attorno al 1971.
L’assunto
teorico centrale – ma poco sviluppato – del Collettivo Autonomo, era
sostanzialmente:
- da un lato la contrapposizione alla continua espropriazione del sapere dei ceti
dominati da parte dei ceti dominanti (tema affascinante, che però avrebbe
richiesto profonde ricerche antropologiche, archeologiche, storiche, ben al di
sopra della nostra presunzione e della nostra concreta capacità di allora),
- d’altro lato la constatazione della tendenziale proletarizzazione dei laureati
(e quindi dei futuri architetti), costretti invece all’apprendimento di
competenze professionali che non avrebbero esercitato (la critica al
professionalismo era già serrata a partire dalle occupazioni della Facoltà nel
1963 e nel 1967 – vedi sopra - ma più
nel senso della ricerca di un nuovo ruolo con una ‘committenza alternativa’,
sociale e pubblica); da qui la proposta
di una ‘estraneità cosciente’ degli studenti alle proposte didattiche, da
capire e criticare senza aderirvi ideologicamente (come il salariato,
secondo Marx, resta estraneo agli interessi aziendali del padrone).
Ambedue
i noccioli della ‘linea’ – rivisti in seguito, ed a maggior ragione dopo 50 anni – , pur cogliendo elementi di verità,
peccavano di estremismo, nel senso di confondere la parte con il tutto e le
tendenze con la realtà (certamente i nostri testi erano più articolati e
sfumati, ma lì si andava a parare): e prima ancora nella pretesa di riconoscere
“la parte” (ad esempio “la classe operaia” oppure “gli studenti
proletarizzati”) come un qualcosa di separabile dal “tutto”, l’essenza
antagonistica del proletariato dalla sua concreta esistenza, contradditoria e
compromissoria (ad esempio i molti
operai che invece si riconoscono con orgoglio con lavoro/prodotto/marchio
aziendale; e così tra noi studenti le infinite sfumature di maggiore o minore
‘proletarizzazione’: ed infatti nei nostri successivi destini la estraneità dai
ruoli professionali si manifestò sì, ma intrecciandosi con molte forme di
permanenza di quei ruoli).
D’altronde,
mentre le lotte sul presalario o contro
la rigidità dei percorsi di studio e gli esami selettivi ebbero indubbio
successo di massa (da prima a dopo il nostro Collettivo), l’”estraneità cosciente” rimase un teorema
di avanguardia, anche se la inconsistenza scientifica di molti
insegnamenti, soprattutto relativi alla ‘teoria della progettazione’, avrebbero
meritato (a nostro parere di allora e di oggi, ma forse anche ‘oggettivamente’)
una decostruzione ben più massiccia e forse anche sbeffeggiante: ma oltre ad
aleggiare uno scarso senso della realtà, era forse venuto meno anche il senso
dell’umorismo…
Mentre negli anni
precedenti aleggiava maggiormente anche uno spirito ludico, ad esempio con i
fumetti murali di “GranZot” e di “Kandebu’ ”,
antesignani della StreetArt e della satira de “Il male”; anche se a Milano non
si toccarono i vertici surreali del gruppo romano degli “Uccelli”, attorno al
compianto Paolo Ramundo (in questi giorni mancato).
La
contrapposizione tra la compromissione con un sapere progressista (“uso
parziale alternativo”, “committenza alternativa”: forse con l’ipotesi di un
“partito” che ne fa sintesi) e un antagonismo quasi “luddista” (arrivando ad
identificare gli studenti dequalificati con il proletariato) si era d’altronde
già manifestata dal ’68, sia nei dibattiti assembleari di studenti e docenti
(vedi sopra), sia all’interno di alcuni gruppi di ricerca (con il rifiuto
studentesco di un “prodotto rifinito e riproducibile”, perché la ricerca doveva
essere solo “formativa”).
ANEDDOTO 2. Ne è testimonianza uno degli ultimi
esami sostenuti dal laureando Silvano Bassetti, nel contesto di una mediazione
post-annullamento degli esami ‘sperimentali’, mediazione che prevedeva 3
domande: 1 sulla sperimentazione in generale, 2 sulla ricerca svolta, 3 sulla
materia ufficiale di esame. Alla 3^ domanda di Topografia, provocatoriamente
facile “cos’è la bussola”, Bassetti si rifiutò di rispondere e si accontentò di
un 18
VIA TIBALDI
Cosicché
invece dicemmo poco sull’Architettura: anche nella peculiare occasione di ‘via
Tibaldi’ e della successiva occupazione al Gallaratese 8,17 .
Sempre
nel 1971, una iniziativa improvvisata di Lotta Continua (allora pressoché
assente in facoltà ) e di alcune famiglie con problemi abitativi, che avevano
occupato case popolari da assegnare ad altri in via Tibaldi, con conseguente
sgombero coattivo, incontrò la
disponibilità del Preside Portoghesi, dell’assemblea studentesca e del
Consiglio di Facoltà ad ospitare tali famiglie nelle aule di Architettura,
coinvolgendole - in quanto oggetto di studio - in un altrettanto improvvisato
seminario sulle lotte per la casa: la repressione fu in grande stile, oltre
allo sgombero, con l’abituale destituzione del Preside e sospensione dei
docenti, militarizzazione del quartiere per alcune settimane ed alcuni
particolari alquanto sgradevoli (per quanto Pasolini poc’anzi inneggiasse ai
poliziotti figli del proletariato): dallo svuotamento della cassetta con poche
migliaia di lire nell’Auletta del Collettivo Autonomo alle scritte fasciste e
maschiliste sui muri interni al Poli.
Le
famiglie senza-casa passarono poi ad occupare due fabbricati nuovi al quartiere
Gallaratese, destinate ai ‘ceti medi’ (edilizia convenzionata) e progettate dai
Maestri (rivoluzionari?) Carlo Aymonino e Aldo Rossi; la tipologia edilizia,
oggetto di ricerca d’avanguardia, non risultò particolarmente gradita alle
famiglie in lotta, nel breve periodo di soggiorno in via Monte Amiata.
C’è
anche forse da rilevare, ex-post, che la pratica delle occupazioni abitative,
elevata ad avanguardia di classe in quegli anni, si è poi riprodotta con
stanche caricature estremiste – persino da destra –, ma anche con ampie infiltrazioni
mafiose e/o criminali.
EPILOGO
Mentre
la Facoltà era governata a distanza da un “Comitato Tecnico” di 3 docenti di
altre facoltà, presieduto da Corrado Beguinot, un Decreto del Ministro Scalfaro
(che non era ancora una star del progressismo…) impose un “numero chiuso” per
le immatricolazioni dal 1972, meramente punitivo, senza alcuna copertura
ideologica del tipo “programmazione degli sbocchi” o “disponibilità di
laboratori”.
Benché
l’assemblea degli studenti fosse divisa sulla tattica con cui contrastare il
commissariamento della facoltà, il
Comitato Tecnico, pur ostacolando e disarticolando con i suoi provvedimenti di
nomine e revoche di docenti la (per altro stanca) esperienza della
Sperimentazione, non riuscì a stabilire un rapporto di egemonia né sulla realtà
studentesca né sul corpo insegnante.
In
particolare, con un qualche sacrificio personale di decine di laureandi, gli
esami di laurea rimasero bloccati dagli studenti, finché nella primavera del
1973 Beguinot (che di lì a breve si convinse addirittura a dimettersi) non si
rassegnò a delegarne la presidenza a personaggi più neutrali: l’assemblea
accettò il compromesso, a condizione che i primi esaminandi fossero i gruppi di
studenti il cui docente risultava “sospeso” dalle varie procedure repressive in
atto; a seguire tutti gli altri laureandi, con tesi più tradizionali, ma sempre
di gruppo e riferite alle esperienze delle “ricerche”.
ANEDDOTO
3 In tale contesto l’esame di laurea del gruppo autogestito cui partecipavamo
(raccogliendo per strada più sottogruppi con diverse tesi, e qualche collega sperduto
in difficoltà nel trovare un Relatore) si trasformò in un ‘happening’ in cui si
incrociavano istanze e tensioni vecchie e nuove:
- i conflitti nella facoltà, con il nostro
rifiuto di illustrare le tesi (“estraneità cosciente”), assumendo invece come
oggetto del dibattito il nostro ‘Relatore sospeso’ (l’architetto Giacomo
Scarpini); e la presenza in Commissione di Esame di alcuni dei famosi docenti
“scientifici e/o reazionari”;
- la selettività della didattica, con
l’esperienza dei ‘colleghi sperduti’ di cui sopra;
- il ‘destino sociale’, con la nostra richiesta
di un voto di 96/100 in quanto necessario allora per entrare nelle graduatorie
degli insegnanti incaricati di Educazione Tecnica alle Scuole Medie;
- la questione femminile, con la scelta di far
esprimere le nostre ragioni alle sole compagne (tardivo riconoscimento rispetto
ad un prevalente maschilismo dei movimenti studenteschi): scelta probabilmente
apprezzata dalla professoressa Franca Helg, che costituiva anche l’ala più
progressista della Commissione.
Per la
cronaca ottenemmo 95/100 e di lì a poco andammo a discuterne all’esame di Stato
con il preoccupato rappresentante dell’Ordine degli Architetti.
Poi ci
disperdemmo variamente nel mondo del lavoro, attuando solo localmente il
proposito di affrontarlo in modo ancora “collettivo”.
SUCCESSIVE
TRASFORMAZIONI DELLA FACOLTA’
Negli
anni successivi la situazione della facoltà di Architettura di Milano iniziò a
‘normalizzarsi’, con un cammino intersecato con le varie leggi di parziale
riforma dell’intera università: processo esaminato sinteticamente da Marcello
De Carli e più analiticamente da Pugliese&C, e su cui non siamo in grado di
esprimere valutazioni approfondite.
Poiché
però abbiamo avuto occasioni, saltuarie ma non superficiali, per confrontarci
con tale evoluzione, ci permettiamo di segnalare, con l’avvallo dell’autorevole
pensiero di Paolo Portoghesi (richiamato più estesamente a pag. 2: “…insegnamento
dell’architettura, tornato, nonostante la creazione dei dipartimenti,
all’isolamento dei corsi e agli esami nozionistici” 8), le
nostre impressioni di un ritorno
-
alla parcellizzazione
degli insegnamenti (aggravato dalla frammentazione degli indirizzi di laurea)
-
subordinazione della
formazione ad ipotesi di profili professionalizzanti (non sempre
effettivi);
-
separazione della
ricerca dalla didattica
-
gerarchizzazione
dell’istituzione nel suo insieme, e soprattutto subordinazione degli studenti e
loro marginalizzazione come soggetto politico.
Per
assurdo, la scuola di massa, con molti più studenti, è un luogo in cui gli
studenti contano di meno e dove si riproducono alla grande meccanismi di
selezione sociale (seppure su grandi numeri), dal banale abbandono degli studi
a procedimenti sempre più raffinati e differiti e costosi di qualificazione e
stratificazione come i master: ciò sia dove c’è ancora il valore legale del
titolo di studio, come ad Architettura, sia dove di fatto non c’è, come in
Disegno Industriale (la questione del
valore legale del titolo di studio, evocata anche da Marcello De Carli 6,
richiederebbe ulteriori approfondimenti che qui non ci sembrano opportuni) .
annavailati@tiscali.it aldovecchi@hotmail.it
seguono
APPENDICE I, II e III; al termine le Fonti
APPENDICE
I – MEMORIE E VALUTAZIONI DEI NOSTRI “FRATELLI MAGGIORI” SULLA FASE 63-68
GIANCARLO CONSONNI: 4, Gli studenti
avevano a che fare con un rigido piano di studi concepito … come una sommatoria
di discipline per nulla irrelate: la mancata assunzione della progettazione
architettonica e urbana come asse portante dell’esperienza formativa andava di
pari passo con l’assenza di indicazioni sulle vie e i modi praticabili di una
sintesi nel lavoro progettuale. A ciò si aggiungeva la giustapposizione fra un
biennio propedeutico e un triennio applicativo. Nei primi due anni gli studenti
erano impegnati in un’acquisizione di strumenti settoriali di cui non veniva
spiegata/dimostrata l’utilità. A sua volta il triennio era sbilanciato su un
fare di stampo professionalistico, impermeabile a ogni riflessione sulle
ragioni delle scelte che non fossero ricondotte a un funzionalismo arido e
stereotipato.
La stessa storia dell’architettura si riduceva a un
nozionismo sterile. L’iter didattico era concepito come un succedersi continuo
di prove (esercitazioni ex-tempore di 8 ore) dove non c’era spazio per
l’esercizio del pensiero in una dimensione civile: nessuna messa a fuoco dei
problemi da affrontare, nessuna riflessione sul metodo e sugli strumenti,
nessuna valutazione consapevole dei risultati. Il modello dell’atelier a cui
vagamente quelle esercitazioni avrebbero voluto rifarsi era quanto di più
lontano: non c’era alcun maestro da osservare all’opera e con cui collaborare,
anche con mansioni umili. Il grosso della didattica si riduceva alla
sorveglianza di masse di studenti. La selezione distingueva i pochissimi dotati
nell’arte del disegno.
Per dare l’idea della povertà del tessuto culturale
di cui era fatta la facoltà di Architettura di Milano, può bastare
l’osservatorio del corso di Elementi di architettura e rilievo dei monumenti
nell’anno accademico 1962-63. Un giorno alla settimana, per otto ore, gli
studenti del primo anno venivano parcheggiati davanti alla Ca’ Granda. Il loro
compito era rilevare un particolare della facciata senza che nessuno tra i
docenti e gli assistenti si sentisse in obbligo di dire alcunché sulle tecniche
del rilievo architettonico e sulle potenzialità del disegno come strumento di
indagine e di rappresentazione; o sentisse la necessità di richiamare in quale
contesto storico era sorta l’opera; o provasse a spiegarne la concezione, le
stratificazioni, i caratteri, e, ancor meno, a misurarsi sul significato e il
senso di quell’architettura straordinaria. Gli allievi erano persino tenuti
all’oscuro del fatto che quell’organismo – sotto la responsabilità di Ambrogio
Annoni e poi di Liliana Grassi, sua allieva – era appena stato un importante
cantiere-laboratorio per la messa a fuoco di problemi cruciali del restauro:
una lezione che parlava come un libro aperto (a saperlo leggere).
MARINA MOLON 5,:
Noi, eravamo quelli che avevano involontariamente fatto fuori Dodi, il Preside,
professore di urbanistica: gli avevamo cortesemente chiesto di ampliare il
programma del corso con le grandi tematiche in discussione in Europa e nel
Mondo sullo sviluppo urbano, lui rispose minacciando di espellere Walter
[Barbero] (reo di aver presieduto un’assemblea), noi abbandonammo tutti l’aula,
lui si dimise.
STEFANO LEVI DELLA TORRE 5,:
sentivamo umiliante un’architettura prona all’eredità stilistica del passato e
alla committenza privilegiata e speculativa, invece che alla crescente domanda
sociale di abitazione e di qualità urbana. All’architettura come problema
cosmetico degli edifici e all’arbitrio stilistico opponevamo la ricerca di
quali fossero le generatrici delle idee giuste, degli spazi e delle forme
(l’anima e le ragioni del progettare) e ci volgemmo al razionalismo, al
Bauhaus, alla Secessione viennese e al panorama internazionale. Alla
separazione tra le diverse discipline, consona alle baronie universitarie,
opponemmo l’“interdisciplinarità”, una visione integrata della cultura, di
comunicazione traversale tra i saperi. Alla trasmissione autoritaria delle
nozioni, opponevamo lo spirito collettivo della ricerca, la necessità del
contraddittorio, il lavoro di gruppo...
La seconda occupazione della Facoltà di
Architettura fu nel 1967 e durò più di 50 giorni, con tutti i suoi apparati di
assemblee, gruppi di studio, concerti, mense e dormitori autogestiti,
trattative e dibattiti con un corpo docente in gran parte disponibile: un lungo
periodo di vita collettiva, e di maturazione politica. Perché l’occupazione non
era solo una forma di lotta per la democratizzazione, per allargare il diritto
allo studio, per il rinnovamento culturale. Era anche la trasformazione del
rapporto privato e individuale di ciascuno di noi con il sapere e con le
istituzione in un rapporto collettivo. Ci trasformavamo in un soggetto
collettivo; imparavamo a sentirci una forza sociale, con la sua responsabilità
politica. Sperimentavamo la democrazia come esercizio pratico e intellettuale
Nella nostra giovinezza, la figura dell’architetto
aveva venature mitiche: era chi concepiva gli spazi e le forme della nostra
vita; “dal cucchiaio alla città”; e mentre con umile realismo imparavamo come la
società influisca sull’ architettura, con più presunzione pensavamo che
l’architettura influisse sulla società in modo tale da conferire all’architetto
un grande potere e una grande responsabilità pedagogica nell’elargire e
insegnare ai popoli il giusto vivere. Produttori di utopie concrete, di “utopia
della realtà” diceva Rogers. Era questo il messaggio incoraggiante, il
narcisismo polemico e creativo che già aveva animato il “movimento moderno” e i
CIAM. Ma rispetto all’oggi, gli architetti erano allora relativamente pochi,
erano ascoltati persino con rispetto dai committenti pubblici o privati invece
d’esser tanto spesso ridotti, come oggi, ad esecutori e firmatari degli
interessi e dei gusti raccogliticci della committenza o degli uffici comunali.
RAFFAELE PUGLIESE 5,:
È in questo clima, caratterizzato dall’insufficienza di mezzi e di personale
docente, che il movimento degli studenti, tramite la “commissione tecnica”
dell’assemblea, coordina l’avvio della sperimentazione. Ad essa partecipano
docenti strutturati e professionisti esterni, più o meno legati alle strutture
didattiche precedenti, con la proposizione di programmi di ricerca-didattica
destinati a diventare base esaustiva di apprendimento e di qualificazione
civile degli studenti. Per superare l’asfittico e burocratico limite costituito
dalle aree disciplinari nella sperimentazione si consolida l’idea della
didattica come ricerca, secondo un programma che avrebbe dovuto coinvolgere
l’intera Facoltà. Questo programma unitario non fu mai predisposto e le singole
ricerche finirono per assumere posizioni molto differenziate, dando luogo ad un
quadro molto eterogeneo. Nonostante ciò la didattica come ricerca configurava
un’alternativa metodologica radicale alla scuola tradizionale, perché comportava
la necessità di affrontare i problemi emergenti dalla realtà del paese da
trattare con apparati disciplinari differenti secondo la complessità del
problema e non secondo angolature precostituite. Ciò apriva la questione
essenziale del legame indissolubile conoscenza-prassi: si trattava cioè di
conoscere la realtà per modificarla, valorizzando gli aspetti dirompenti dei
risultati della ricerca scientifica. Estremamente differenziati furono i modi
di porsi dei diversi gruppi che operarono in quell’ambito. … Il portato della
sperimentazione è viceversa notevole innanzitutto per i programmi di ricerca
posti alla base del lavoro degli studenti. Lo sforzo straordinario di tutte le
risorse presenti, o accorse per l’occasione, diede l’avvio a
quell’inarrestabile processo di configurazione dei filoni di lavoro, … che
hanno segnato la storia della Facoltà di Milano fino ai nostri giorni.
MARCELLO DE CARLI 6: Si trattava di
ribaltare l’organizzazione didattica, eliminando il carattere frammentato e
apodittico degli insegnamenti offerti dal piano di studi, ricomponendo gli
insegnamenti a partire dai problemi, finalizzando lo studio oltre che alla
trasmissione del sapere codificato, alla costruzione di nuovo sapere.
In sintesi si trattava di questo:
Un anno accademico - una “ricerca”, con contorno
di lezioni ex cathedra.
Si trattava di ribaltare l’organizzazione
didattica, finalizzandola non solo alla trasmissione del sapere codificato, ma
alla costruzione di nuovo sapere: ogni anno uno studente avrebbe dovuto
partecipare ad una attività di ricerca, interdisciplinare, su problemi.
Ciascuna delle diverse discipline avrebbe dovuto fornire il suo contributo,
formando lo studente a partire dai problemi.
Lezioni ex cathedra e seminari avrebbero dovuto
affiancare l’attività di ricerca, fornendo le
conoscenze di base.
In cinque anni di università ciascuno studente
avrebbe dovuto affrontare cinque esperienze
complesse.
L’offerta didattica e la libera formazione del
piano di studi.
L’idea era che i docenti, singoli o in gruppo,
senza distinzione gerarchica
, anche con partecipazione di nuovi docenti non inquadrati nella Facoltà,
proponessero i propri programmi di ricerca e didattica; fra questi ogni
studente avrebbe scelto.
Curiosamente, questa idea, sicuramente ispirata a
ideali di socialità (che venivano dalla tradizione cattolica, socialista e
comunista) si basava su un meccanismo liberista di mercato: l’incontro fra
l’offerta didattica dei docenti e la domanda di studenti che liberamente
costruivano il proprio piano di studi e la propria formazione.
Questo meccanismo, spostava il potere dall’offerta
rigida del piano di studi ufficiale alla domanda di formazione espressa dagli
studenti. Era un meccanismo giusto e politicamente efficace, perché avrebbe
mobilitato gli studenti e messo in concorrenza i docenti.
Partecipazione alle ricerche senza distinzione
di anni di corso:
L’idea era che gli studenti si iscrivessero a
ciascun laboratorio di ricerca senza distinzione di anni di corso. I docenti
avrebbero dovuto applicare una pedagogia che tenesse conto dei diversi livelli
di formazione degli studenti. Ma gli studenti stessi avrebbero collaborato alla
formazione dei più giovani. Ovviamente pensavamo, condividendoli, ai principi
pedagogici della scuola di Barbiana di Don Milani. “Lettera a una
professoressa” era appena uscito (nel 1967) e tutti l’avevamo letto.
Ma pensavamo anche all’esperienza fatta durante l’occupazione del gennaio marzo, al lavoro condiviso nelle
commissioni di studio, cui avevano partecipato studenti senza distinzione di
anno di corso. E aveva funzionato bene.
Curiosamente, mentre costruivamo strumenti per la
nuova università di massa, proponevamo una didattica fondata sull’antica
tradizione maieutica (ancora il metodo socratico): il lavoro di gruppo, la
trasmissione di sapere nel lavoro comune di docenti e studenti, per di più
studenti di diversi anni di corso; la formazione attraverso il dialogo e il
contraddittorio; la guida e non la coercizione; la scoperta autonoma della
verità.
A differenza di quanto avvenne in altre facoltà,
non pensavamo a “controcorsi” o a “seminari alternativi” come manifestazione
temporanea di dissenso. La trasformazione doveva avvenire grazie ad una diversa
organizzazione dell’insegnamento e dello studio (che allora assimilavamo alle “riforme
di struttura”) ed alla dialettica fra le componenti universitarie (studenti e
docenti, coi loro vari ruoli).
Si trattava di “liberare le forze produttive” dalla
gabbia di un piano di studi inadeguato e di un’organizzazione feudale ed
autoreferenziale del lavoro universitario.
APPENDICE
II – PICCOLA ANTOLOGIA DI CRITICHE ALLA SPERIMENTAZIONE, DA SUBITO IN POI
PAOLO PORTOGHESI, PRESIDE, GEN 1969 3:
“Aspetti negativi e irrisolti … sono principalmente i seguenti: a) identificazione
troppo semplicistica di didattica e ricerca; b) responsabilizzazione dei
docenti subalterni rispetto alla scuola e non rispetto ai professori ufficiali
… c) mancanza di rapporti strutturali con le altre facoltà … d) precarietà
degli apporti esterni e) insufficiente pubblicizzazione delle attività svolte …
f) eccessiva labilità delle strutture didattiche e organizzative che provoca
disorientamento e difficoltà di scelta da parte delle matricole, nelle quali si
induce un complesso di inferiorità g) ineliminabile sfasamento tra la
disponibilità di tempo e dei discenti legato alla impossibilità di pretendere
dai docenti, con le attuali retribuzioni irrisorie, la presenza a full-time
nella scuola”.
DOCENTI DEI “5 GRUPPI” (BOTTONI, CAMPOS
VENUTI, CANELLA, MAGNAGHI, ROSSI), GEN 1970 3: “I docenti dei 5
gruppi … valutano che nella storica incapacità del Consiglio di Facoltà di
affrontare in termini complessivi l’organizzazione della facoltà, la ripresa
volontaristica e soggettiva del singolo gruppo di ricerca non farebbe altro che
riprodurre la divisione in ghetti che ha sempre caratterizzato l’assetto di
facoltà … disperdendo gli studenti in molteplicità di esperienze non
confrontabili….”
ASSEMBLEA DEGLI STUDENTI, FEB 1970 (mozione
Vecchi) 18: “… iscriversi tutti ai ‘big’ [ovvero i “5 gruppi”
suddetti] è la parola d’ordine per riorganizzare gli studenti come tali e per
far saltare le principali distorsioni di questi corsi:
- docenti
arroccati nel ruolo di “maestri” che rifiutano di svolgere i loro compiti
didattici, affidandoli all’élite clientelare degli allievi;
- sfruttamento
e rigetto degli studenti meno preparati e aggressivi, lasciati ad un inferiore
livello di approfondimento…
- mistificazioni
del rapporto tra docenti e Movimento Studentesco …
- alleanza
puramente di potere senza integrazioni né confronti effettivi”
MARCELLO DE CARLI, 2010 6:
“LE CAUSE DELLA MANCATA EVOLUZIONE
Cause strutturali. Alcune
cause erano “strutturali”. La didattica della Sperimentazione richiedeva un
impegno a tempo pieno nell’insegnamento / ricerca, almeno per i docenti delle
“ricerche”, e una capacità pedagogica particolare:
- si
trattava di gestire i contributi delle diverse competenze (le cosiddette
“discipline”) con un’organizzazione del tempo flessibile (non con un orario
rigido), secondo necessità della ricerca e della formazione,
- si trattava di organizzare una formazione ad
un tempo collettiva e personalizzata, diretta a studenti con diversa
esperienza, sia per anni di iscrizione che per pregresse esperienze.
La costruzione di una scuola di architettura
basata sulla ricerca e sul suo uso sociale richiedeva finanziamenti e,
soprattutto, la formazione di un corpo di docenti ricercatori che, abbandonando
gli studi professionali, collaborasse negli istituti (poi dipartimenti) in
“laboratori” (atelier) di ricerca e progettazione.
Ma il “docente unico a tempo pieno” della
Sperimentazione era basato, in gran parte, sul volontariato. …
Non è stata mai seriamente riformato il
meccanismo feudale delle carriere universitarie; non esisteva quindi un nesso
diretto fra la l’efficacia delle ricerca e dell’insegnamento nella
Sperimentazione e la carriera universitaria.
Cause interne: Altre
cause erano interne: il frazionamento nei gruppi di ricerca e il sistema di
valutazione creavano interessi diversi e contrastanti fra gli studenti.
Studenti e gruppi di ricerca.
Il frazionamento della didattica (docenti e
studenti) in gruppi di ricerca in competizione fra loro ha condizionato la
politica dell’organico ed ha creato identificazione e concorrenza anche fra gli
studenti. Con il mercato delle ricerche si erano formate scuole distinte non
solo per l’oggetto dello studio, ma per la tendenza.
Quindi il contraddittorio era diventato più
complesso; quello fra controparti con diverso ruolo istituzionale (le
categorie: docenti di ruolo, docenti a contratto, docenti volontari, studenti),
si intrecciava con quello fra le “scuole”.
Gli studenti, che si identificavano in una
tendenza culturale, entravano in competizione con gli altri e le scuole
facevano politica dell’organico con i meccanismi di cooptazione tradizionali.
Sistema di valutazione della formazione e
valore legale del titolo di studio.
Il procedimento di valutazione degli studenti
era autoreferenziale; all’interno del gruppo di “ricerca”, c’erano solidarietà
e complicità fra docenti e studenti: “compri” la mia offerta, io ti promuovo;
“entrambi difendiamo il risultato del nostro lavoro come prodotto comune”. Il
contraddittorio fra docenti e studenti, che aveva alimentato la nascita della
Sperimentazione, si era sopito.
…
La mancanza di un “principio dialettico” che
guidasse l’evoluzione.
Era il problema principale. Quando abbiamo
organizzato la Sperimentazione pensavamo che fosse necessario ridefinire
obbiettivi di formazione, conoscenze, competenze e capacità operative da
acquisire; in sostanza i “diritti / doveri” degli studenti, che acquisivano il
titolo legale e un conseguente ruolo sociale, e i doveri dei docenti. La
definizione di obbiettivi formativi condivisi e la verifica del loro rispetto
nella didattica avrebbe dovuto essere lo strumento per mantenere uniti gli
studenti nel contraddittorio con le altre categorie e determinare un’evoluzione
della Sperimentazione; avrebbe consentito una nuova giusta dialettica fra
studenti e docenti ed una valutazione dialettica, nel contraddittorio, dei
risultati (formativi e produttivi) delle “ricerche. Questo lavoro fu
abbandonato, travolto nel tumulto degli eventi, e la Sperimentazione si
cristallizzò.”
BERNARDO SECCHI, PRESIDE, INTERVENTO AL
CONSIGLIO DI FACOLTA’ OTT 1978 3: “ …nel CdF e nella Facoltà si sono
manifestati i primi sintomi di “crisi” quando si è tentato di dare soluzione,
sul piano sostanziale, e non burocratico, ad alcuni dei problemi posti dalla
sperimentazione precedente.
Quando si è trattato di passare da una
generica, anche se profondamente corretta, contestazione della tradizionale
divisione del sapere per discipline ad una positiva proposta di
riorganizzazione del piano di studi della Facoltà che tenga conto delle esperienze
maturate anche in altre sedi; quando si è trattato di passare dal generico
anche se corretto rifiuto di dipartimenti disciplinari alla definizione precisa
dell’area di interesse e del campo di ricerca di ciascuno dei futuri
dipartimenti ‘problematici’ e dei rapporti tra dipartimento e ‘discipline’,
ecc. ecc.”
RAFFAELE PUGLIESE, 2013 3 :“… Non
va nascosto il carattere discriminatorio della Sperimentazione che aveva
determinato l’esclusione (allora si diceva auto-esclusione) di una parte dei
docenti del vecchio quadro didattico; e un malinteso principio
dell’autoregolazione individuale, non sempre accompagnato da corrispondente
responsabilità, contrapposto al riconoscimento del merito, con cedimenti
demagogici che rendevano legittime le pratiche più riprovevoli e che hanno
alimentato tanti equivoci nella e sulla scuola pubblica”.
BERNARDO SECCHI, 2013 3: “A partire
dalla metà degli anni ’60 una forte spinta rinnovatrice aveva pervaso, con gli
inevitabili anticipi e ritardi, le Scuole di Architettura. Si è aperta allora
un stagione assai fertile di rinnovamento dei modi di fare scuole,
dell’architettura, dell’istituzione, della selezione dei docenti. Sono stati
anni importanti, nei quali, sia detto per inciso, l’architettura e
l’urbanistica italiane hanno detto qualcosa di importante al resto del mondo.
L’aumento improvviso della popolazione studentesca ci ha dato l’ebbrezza e
l’illusione di potere, cambiando la cultura del progetto, cambiare la società
Questa giusta idea doveva essere gelosamente curata ed invece ha dato luogo,
non sempre, ma in molti casi, ad esiti parolai e superficiali … Il modo adottato
per risolvere questi problemi è stato dividersi: dividere l’urbanistica
dall’architettura, dividere Bonardi da Bovisa, Roma 1 da Roma 2 e 3 … Senza che
alla divisione corrispondesse un concreto e riconoscibile progetto scientifico
e culturale. Il caso più drammatico, a mio modo di vedere, è quello che
riguarda la divisione tra urbanistica ed architettura, divisione della quale
paghiamo oggi le conseguenze” ed ancora: “Chi assiste alle tesi di laurea è
spesso sopraffatto, sino al disgusto, dalla retorica che vi impera”.
ANTONIO SCOCCIMARRO, 2013 3: “La
liberalizzazione degli accessi ha avuto un peso determinante … coinvolgendo
tutte le istituzioni in un gioco al ribasso. Ovviamente parliamo di
Architettura, ma il discorso credo valga anche per altre discipline. Aprire gli
accessi all’Università a qualsiasi titolo di studio precedentemente acquisito,
ha significato, nei fatti, una dequalificazione degli studi, in quanto si è
risposto a una sacrosanta pressione utilizzando le stesse risorse, gli stessi
schemi organizzativi, le stesse tecniche pedagogiche utilizzate finora, cioè
per una Università di élite. La risposta al diritto allo studio con la
liberalizzazione degli accessi così come è stata condotta finora è una
operazione populista e demagogica”.
APPENDICE III – ALTRE TESTIMONIANZE: CLAUDIA CAPURSO SULL’ANNO
66-67
Il mio 68
iniziò nel 1966-67.
Avevo
scelto Architettura affascinata dai discorsi di due studenti
degli ultimi anni, invitati per le attività di orientamento. Puntarono sul
ruolo sociale dell’architetto, sulla possibilità di cambiare il mondo con
l’architettura… e così via, con eloquio coinvolgente ed esaltante. Ai tempi
condividevo le scelte politiche di mio padre ‘socialista nenniano’, ma
quell’aria rivoluzionaria mi inebriò. Soprattutto trovavo asfissiante la cappa
di ipocrisia che permeava la società pre-68, con i costumi misogini e
autoritari, sessuofobi e al contempo libertini.
I due
giovani studenti promettevano un’aria pulita.
Le cose
andarono diversamente quando, in quel lontano
autunno 1966 timida e titubante lasciai il mitico Liceo Leonardo da Vinci per
prendere posto (con altri 150 compagni del corso A) nelle grandi aule del piano
terreno.
Nell’aria
una grande agitazione: per la prima volta c’era stato un afflusso di iscritti
tale da sdoppiare i corsi in due A e B. Noi matricole eravamo solo 300 ma la
facoltà era allora estremamente elitaria, fino a poco prima si
iscrivevano in tutto un centinaio di allievi per anno, per lo più figli o
parenti dei maggiori architetti e dei più noti professionisti di Milano. Noi,
sia per numero sia per estrazione sociale piccolo borghese, eravamo
guardati con curiosità e considerati gli avamposti
della scuola di massa, eppure eravamo solo in 300… non posso che
condividere quello che scrivete al proposito: una vera didattica
per una scuola di massa non è mai stata elaborata e ben che
meno sperimentata.
I primi
mesi vagavamo disorientati. Il piano di studi era praticamente diviso in due.
Le materie scientifiche (Analisi matematica, Geometria, Fisica...) e
quelle propedeutiche all’architettura: Disegno dal vero (con Castiglioni e
la sua corte) e Elementi di Architettura (con Gregotti e la sua corte). Unica
novità Storia dell’arte che, dopo un avvio noioso, continuò con quell’istrione
di Portoghesi. Le materie scientifiche erano simili all’insegnamento
liceale: il docente alla lavagna che spiegava in quelle aule a gradonate
del Politecnico teoremi incomprensibili a centinaia di malcapitati, senza far
capire a cosa servissero nella formazione dell’architetto.
Ma ci
eravamo abituati e poi ciascuno aveva almeno un ex compagno del Liceo che
frequentava ingegneria e che al pomeriggio ci spiegava quello che al mattino
non si capiva.
Il vero
dramma invece era rappresentato dai corsi pre-architettonici.
Sprezzanti
e antipatici assistenti distribuivano incomprensibili consegne, senza degnarci
di spiegazioni.
Forse
con la speranza di far fuggire più studenti possibili: un modo pratico
per trovare soluzioni al sovradimensionamento della facoltà ‘di
massa’. E in effetti molti se ne andarono
Gli
studenti provenienti dall’artistico facevano disegni stupendi, che invidiavo a
morte, ma gli altezzosi assistenti li odiavano e con disprezzo tiravano
rigacce.
Adoravano
invece quelli che avevano il diploma di Liceo classico e sopportavano noi dello
scientifico.
Feci
amicizia con una bionda studentessa del Carducci e con lei cercammo di capire
qualcosa delle criptiche consegne: oggetti misteriosi che
dovevamo imballare senza sapere che funzione avessero, strutture da
poggiare sul monte Stella (poveretto) senza altre specifiche,
kilometri di letture del contesto urbano (Lambrate) che si
limitavano a meri formalismi visivi. Insomma una delusione.
Ci
sentivamo traditi. Così quando nel marzo (mi sembra) ci fu l’occupazione della
facoltà con la proposta di sperimentazione aderimmo con
entusiasmo sperando che si tornasse a dare un senso alle cose. Il resto lo
conoscete.
Fonti:
1. Anna Maria Vailati e
Aldo Vecchi - SESSANTOTTO” su Utopia21, maggio 2018, LINK
2 – Catalogo a cura
di Fiorella Vianini - LA RIVOLUZIONE
CULTURALE: LA FACOLTÀ DI ARCHITETTURA DEL POLITECNICO DI MILANO 1963 – 1974” –
mostra presso Facoltà di Architettura Civile, Milano-Bovisa, 2009 http://www.gizmoweb.org/wp-content/uploads/2009/10/la-rivoluzione-culturale-catalogo-bassa-protetto.pdf
3 – Raffaele Pugliese,
Francesca Serrazanetti, Cristina Bergo - SPERIMENTAZIONE DELL’ARCHITETTURA
POLITECNICA – Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2013
4 – Giancarlo Consonni
- IL ’68 DI MILANO-ARCHITETTURA – in
AA.VV. – LE ISTITUZIONI UNIVERSITARIE E IL ’68 - a cura di Alessandro Breccia –
Clueb, Bologna 2013
5 – Catalogo a cura di
Stefano Levi Della Torre e Raffaele Pugliese - OCCUPANTI 1963 – 1968: GLI
ESORDI DELLA MODERNA FACOLTÀ DI ARCHITETTURA NELLE FOTOGRAFIE DI WALTER BARBERO
– mostra presso Campus Leonardo, Milano, 2011
6 – Marcello De Carli
- http://www.paisia.eu/1967-1968-la-strana-sperimentazione-della-facolta-di-architettura-del-politecnico-di-milano/
7 - https://it.wikipedia.org/wiki/Silvano_Bassetti
8 – Paolo Portoghesi -
POLITECNICO 1971, GLI ARCHITETTI COI SENZA TETTO – su “Il Manifesto”, 4 luglio
2021
9 – Fulvio Fagiani -
LORENZO FIORAMONTI SULL’ECONOMIA DEL BENESSERE – su Utopia21, luglio 2021 LINK
10 – appello di alcune
laureande della Normale di Pisa, luglio 2021 https://www.youtube.com/watch?v=QFLMT_55FaQ
11 – Claudia Capurso - ISTRUZIONE
E CULTURA: RIFLESSIONE E FRAMMENTI PER UNA RIFORMA GLOBALE – su Utopia21,
maggio 2021 - https://drive.google.com/file/d/1p5l8ZomCMJoJE17ANu17tT6Gb__pUInW/view?usp=sharing
12 – Antonio Balistreri
e Fulvio Fagiani – SOLITUDINE DIGITALE – Asterios Abiblio editore, Trieste 2021
13 – Alberto Magnaghi,
Augusto Perelli, Riccardo Sarfatti, Cesare Stevan – LA CITTA’ FABBRICA – Clup,
Milano 1970
https://www.inventati.org/apm/archivio/P6/14/P614_029.pdf
14 – CittàBeneComune
(Casa della Cultura) – intervista ad Alberto Magnaghi https://www.youtube.com/watch?v=9C_2gYZcOyE
Milano, 20 aprile 2021
15 – Aldo Vecchi - IL
FENOMENO URBANO: E LA COMPLESSITA’? DUBBI SUL SAGGIO DI BERTUGLIA E VAIO – su
Utopia21, novembre 2019 -
https://drive.google.com/file/d/1slYfODN_JFQIFR2dndnyn7Iw0dfg0vuD/view?usp=sharing
16 – Aldo Vecchi - CASA
ITALIA? – su Utopia21, ottobre 2016 - https://drive.google.com/file/d/1LvMOxLcXJ9mnV3AsEkVjSYG5OBTbA-8H/view?usp=sharing.
17 – Stefano Levi,
Luigi Manconi – LA RIPRESA DELLE LOTTE STUDENTESCHE A MILANO: DA VIALE TIBALDI
A CITTA’ STUDI – su “Quaderni Piacentini” n° 44-45, ottobre 1971
18 – Mozione – TUTTI
AGGRESSIVI DAI BIG – Ciclinprop, febbraio 1970 - da archivio privato.