Alcune riflessioni ed alcune domande a partire dai due libri di memorie di un operaio e poi imprenditore, immigrato dal Veneto nel Medio Novarese, sempre comunista ed a lungo amministratore locale.
Sommario:
-
autobiografie
-
l’infanzia
in un Veneto rurale
-
il
trasloco a Divignano e poi a Borgo Ticino
-
verso
la maturita’
-
intervista
sull’utopia comunista
AUTOBIOGRAFIE
Nel
poco tempo che negli ultimi anni riesco a dedicare alla lettura di testi
narrativi, mi è maturata una predilezione per i racconti più o meno
esplicitamente autobiografici, non tanto per la presumibile (ma variabile)
autenticità dei contenuti, ma per la palese motivazione degli autori, in
contrapposizione alla frequente “gratuità” dei racconti di finzione e/o di
ambientazione storica (preferenza che – ho scoperto – condivido con critici
professionali quali Angelo Guglielmi).
Mescolando
letture più remote ed altre più recenti, ho trovato spesso una capacità
particolare di comunicare gli stupori ed i miti delle esperienze infantili e
adolescenziali, nei ricordi di grandi scrittori, come Marcel Proust od Elias Canetti
o la contemporanea Annie Ernaux (e forse in Ippolito Nievo e in Thomas Mann),
ma anche nei memoriali di tre intellettuali della sinistra comunista, come
Rossana Rossanda, Pietro Ingrao e Luciana Castellina, di ulteriore interesse
perché – pur più giovani dei miei genitori, e di diverso ambiente – hanno
attraversato vicende comparabili a quanto appreso nel mio vissuto familiare e
poi la storia della sinistra italiana che ha poi coinvolto anche la mia generazione.
L’INFANZIA
IN UN VENETO RURALE
Gli stupori e i miti infantili/adolescenziali
li ho incontrati anche nella lettura del primo volume delle memorie di Mario
Chinello “Ciò che non ho voluto” 1, pubblicato nel 2015: per commentarlo ho però atteso la
pubblicazione del 2° volume “Rosso di sera” 2 (2021), non solo per
considerare la panoramica di assieme, ma anche per prudenza, presumendo di
comparire anch’io in qualche anfratto della sua storia successiva (mi occupavo
a vario titolo dell’urbanistica comunale di Borgo Ticino dal 1970 al 1980,
quando Mario era Assessore, con il Sindaco Vinicio Silva 3) e per
assicurarmi quindi di non sfigurare… Al di là di questi timori, il 2° Volume mi
incuriosiva in particolare perché le vicende dell’Autore si intersecano non
solo in parte con la mia traiettoria personale (anch’io con parziali ascendenze
venete, cresciuto – e però anche nato - nel medio novarese, però più giovane e
più “cittadino”) ma con le storie, personali e collettive, nelle fabbriche e
nella sinistra, tra Arona ed il Varesotto, di cui mi sono occupato in
precedenti interviste pubblicate su Utopia21 4.
Non è facile riassumere chi è
l’Autore (infatti per raccontarlo nei 2 volumi l’Autore stesso ha impiegato più di 500 pagine): pescando
(liberamente ed interpolando) dal risvolto di copertina “nato … in provincia di Venezia nel 1942, si è
trasferito in Piemonte con la famiglia dieci anni dopo, risiedendo dapprima a
Divignano e successivamente a Borgo Ticino, dove tuttora abita. La sua
esperienza scolastica si interrompe con le elementari…” [ma il suo rammarico in
proposito si è tradotto in un vigoroso autodidattismo]; “Fin da giovane ha
praticato vari sport, soprattutto il ciclismo che condivideva con la passione
politica …sempre schierato a Sinistra”. [Operaio meccanico, poi capo-squadra ed
infine piccolo imprenditore nel ramo dei serramenti metallici, è stato
Assessore e poi], “.. Sindaco del Comune di Borgo Ticino dal 1988 al 1997”
[nonché Presidente o Promotore di altre entità associative e/o istituzionali,
dalla Scuola alla Assistenza Sociale e Sanità].
Lo sfondo dell’infanzia di
Mario Chinello (con qualcosa in comune
con i monologhi del più giovane Marco Paolini e qualcosa con “libera a nos a
Malo” del più anziano Luigi Meneghello – sempre autobiografie –) è Campagna
Lupia, un paese tra Mestre e Chioggia, dietro la Laguna di Venezia (e sotto le
sue acque se non funzionano le idrovore), caratterizzato da una secolare
povertà contadina, aggravata dalla recente guerra (rammenta Mario che varie
componenti degli Alleati, arrivati nel 45 come liberatori ad accamparsi nel
grande cortile della famiglia paterna, già utilizzata dagli invasori tedeschi,
si comportava – nelle vessazioni quotidiane – peggio dei tedeschi stessi), ma
alleggerita, in qualche misura dalla fede social-comunista in un futuro
migliore.
Di questa fede, assai diffusa
allora nella provincia di Venezia, sono paradigma alcuni aneddoti relativi alla
decisiva tornata elettorale del 1948: la partecipazione del piccolo Mario –
dapprima in gruppo sul cassone di un camion e poi da solo in cima ad un
pilastro della Villa di Stra, fotografato su un giornale, mentre sventola la
bandiera rossa – ad un comizio di Palmiro Togliatti – di cui Chinello rammenta
soprattutto lo sdegno per la strage di Portella della Ginestra del 1947 - ed i
seguenti, che riporto quasi per esteso in nota [1], perché non riassumibili:
Al di là di questi ed altri
singoli vivaci episodi, la rievocazione della vita nel paese in quegli anni del
dopoguerra – attraverso i vari rami delle famiglie materne e paterne, più o
meno poveri o talora quasi-ricchi, ed i personaggi più caratteristici del
vicinato – è intessuta di osservazioni sulla fatica e sulla tecnica dei vari
lavori, sulla semplicità della vita e dei divertimenti, sulle rivalità ma anche
sulla spontanea solidarietà (del popolo di allora), sul bilinguismo
italo-veneto: mentre il piccolo Mario cresce in letture e curiosità, botte dai
compagni più robusti (in attesa di potersi rifare), ed ammirazione/imitazione
verso i due fratelli (e due sorelle) maggiori di lui.
IL
TRASLOCO A DIVIGNANO E POI A BORGO TICINO
L’incanto polifonico di questo
mondo[2], piccolo ma variegato, è
bruscamente interrotto dalla decisione dei genitori di Mario di emigrare in
Piemonte, non per un bisogno materiale di reddito, ma per un desiderio di
emancipazione dall’assetto patriarcale della famiglia, imperniata sul nonno
(Carlo), relativamente benestante nel contesto contadino, perché titolare del
principale negozio di frutta e verdura (e pochi dolci) del paese.
Il racconto prosegue con le
difficoltà di adattamento e integrazione della famiglia Chinello (prima come
agricoltori, poi con un piccolo commercio per il padre, e il lavoro salariato
per i figli maggiori) in un paese un po’ marginale del novarese, Divignano, caratterizzato
(come anche - vedremo poi - Borgo Ticino) da decenni di emigrazione oltre
Atlantico e Oltralpe e da inizi di immigrazione dal Veneto e successivamente
dalla Calabria per le speranze di lavoro sia nelle cascine abbandonate sia
nell’edilizia e nella crescente industrializzazione, ma non in loco (se non per
il settore tessile-confezioni, con manodopera femminile) ma con pendolarità
verso i centri urbani maggiori, spesso al di là del Ticino.
Di queste trasformazioni
sociali il ragazzo Mario Chinello è testimone attento, sia riguardo agli adulti
(le sue prime attività, scorrazzando in bicicletta, consistono nel far
commissioni conto terzi nei paesi vicini, ad esempio per andare in farmacia)
sia riguardo alle sue esperienze dirette, negli ultimi anni di scuola
elementare (tra le solite botte “di benvenuto” e le gare dei ripetenti a
cercare di “toccare” le parti intime delle compagne) e poi nei primi anni del
lavoro dipendente, come operaio ad Arona ed a Somma Lombardo.
Mi
ha colpito in particolare, in questo scenario degli anni ’50, non solo la
durezza della fatica nel lavoro ma anche il livello di violenza implicita,
oppure esplicita, che regolava le gerarchie sociali e professionali, non solo
tra padroni ed operai, ma all’interno dello stesso mondo operaio.
Nonché
la fatica (e talvolta il pericolo) per gli spostamenti pendolari, a piedi e in
bici (con qualunque clima) e sui mezzi di trasporto collettivi, tra cui ad
esempio il pericoloso traghetto che attraversava il Ticino tra Porto Varallo
Pombia e Coarezza (frazione di Somma Lombardo), dove molte operaie residenti in
Piemonte lavoravano in un cotonificio.
L’ADOLESCENZA,
TRA IL LAVORO E TANTI ALTRI INTERESSI
Tra Arona/Dormelletto e Somma
Lombardo prende avvio, in diverse piccole aziende metalmeccaniche (le offerte
di lavoro allora non mancavano), la carriera professionale di Mario, con una
burrascosa breve parentesi alla IGNIS di Cassinetta, dove il nostro entra in
rapido conflitto con il sistema gerarchico aziendale, non per insubordinazione
sindacale, ma per l’impermeabilità di capi, capetti e colleghi ad ogni ipotesi
di correzione dei metodi di lavoro, anche quando in favore di una maggior
produttività.
Cresce nel frattempo anche la
politicizzazione di Mario Chinello nelle file del Partito Comunista, allora in
zona forte soprattutto a Castelletto Ticino, anche in relazione alla storia
delle grandi fabbriche della vicina Lombardia (la SIAI Marchetti di Sesto Calende e Vergiate, ed ancora a Sesto la
Vetreria AVIR e la Ferriera di S.Anna): ricompare nelle sue memorie la
rievocazione della strage di Portella della Ginestra, in un comizio a Novara di
Girolamo Li Causi (i due volumi sono interpuntati da brevi riferimenti alla
storia nazionale – e anche internazionale – della lotta politica e di classe,
con particolare attenzione e sdegno verso lo stragismo fascista ed il connesso
“golpismo”, ma anche con chiara condanna del successivo terrorismo di sinistra;
più moderati, mi pare i giudizi sul “regime democristiano”, tranne che per gli
esempi locali più lampanti di malgoverno).
Gran parte della narrazione è
però rivolta a tutti gli altri interessi di Mario, dalle libere letture alle
amicizie, dallo sport (non solo ciclismo, dove si impegna attivamente come
corridore dilettante) al ballo: nelle balere il giovane Chinello si esibisce
con qualche successo anche come cantante, il che talvolta confligge con la
disciplina che vorrebbe imporgli la squadra ciclistica.
Alla bicicletta è legata una
impresa raccontata con accenti epici e lirici, che in qualche modo chiude
l’adolescenza: il ritorno in gita ciclistica a Campagna Lupia, attraversando
nella notte estiva l’operosa pianura padana che dorme, tranne le diverse
persone che incontra (e con cui parla) nei paesi, a Milano, lungo le strade.
Un altro episodio che mi è
rimasto impresso è una gran rissa nella finale di un torneo di calcetto, a
Pombia, con l’attiva partecipazione del locale parroco “Don Pacifico”, il quale
però l’indomani si reca in penitenza al “Bar Sport” di Borgo Ticino, sede della
squadra ospitata e vincitrice, offrendo biscottini e apertivi in segno di
riconciliazione.
Punti di svolta nella
maturazione del protagonista, ben raccontati, sono l’iniziazione al sesso
(mercenario) nell’ambito della “festa dei coscritti” (però Mario sarà esentato
dal servizio militare, in quanto “terzo fratello”) e l’iniziazione
sentimentale, con il difficile (ma premiato) corteggiamento verso Mara, che
allora lavorava nella fabbrica di fronte alle Officine Meccaniche di
Dormelletto: galeotto fu il famoso cavallo Ribot, che Mario condusse Mara (ed
una amica) a curiosare nella vicina tenuta Dormello-Olgiata, durante la pausa
mensa: l’amica capì il risvolto romantico, e Mara divenne la compagna di tutta
la vita di Mario (ma non prima di un diverbio chiarificatore con il fratello maggiore
di Mara).
VERSO
LA MATURITA’
Trascurando in questa
recensione di riferire sulle numerose digressioni dei 2 volumi sulle vicende di
parenti, vicini di casa ed amici (che però nell’insieme compongono una interessante
rappresentazione sociologica della vita dei paesi in questione; e anche della
morte, perché più si girano le pagine e più frequente è trovare necrologi, con
larga presenza di tumori) e sulle discussioni con i compagni del PCI, con gli
avversari politici e talora con alcuni preti interessati al dialogo, la
maturazione di Mario Chinello (forse incompleta, perché sotto molti aspetti
manifesta tuttora vivacità adolescenziali, soprattutto in sella alla
bicicletta) si sviluppa su tre fronti:
-
la famiglia, con il sobrio matrimonio (in
parallelo con il cognato, ma non quello del diverbio), un viaggio di nozze a
Firenze – apprezzandone la enorme bellezza –, la nascita e crescita di due
figli studiosi, ad un certo punto una bella casa in proprietà, i buoni rapporti con gli anziani e i fratelli
e cognati (commuovente la descrizione della vita della famiglia di Mara prima
dell’emigrazione dal Polesine);
-
il lavoro, in cui Mario approda dapprima al
ruolo di capo-officina nella preparazione e installazione di serramenti
metallici, in una azienda di Arona, e poi – in società con il più giovane Bruno
Braghini, che lo ha seguito sotto gli ultimi 2 padroni e ha anche studiato da
disegnatore – alla formazione di una piccola impresa specializzata sempre in
serramenti metallici, la OCSA, con sede a Borgo Ticino, dapprima in affitto e
poi costruendo la propria officina (con
clientela locale, ma anche estesa alla Lombardia occidentale);
-
la politica, con la assidua militanza nel
Partito Comunista, di cui Mario è a lungo il segretario di Sezione a Borgo
Ticino ed attivo nella federazione di Novara,
e con l’intensa attività amministrativa, come Consigliere, Assessore e
Sindaco nel suo comune e poi con altre cariche e funzioni in organismi
sovracomunali ed in associazioni del volontariato (nonché come Presidente del
Consiglio di Istituto del Liceo Fermi di Arona): attività finalizzata
soprattutto a rispondere ai bisogni e alle aspettative della popolazione ed a
sopperire alle carenze delle istituzioni pubbliche.
Nei
ricordi di questi decenni di faticose trasformazioni, personali e collettive, e
di vita quotidiana ‘in seno al popolo’ non mancano sapidi aneddoti, come già
nel primo volume, ma la mia impressione complessiva – in funzione della materia
trattata, oggettivamente più ‘prosaica’ e dalla diversa età del
protagonista-narratore – è che nel secondo volume la prosa prevalga sulla
poesia.
Lasciando alla lettura diretta
del testo l’apprezzamento per i singoli episodi (riguardo alle esperienze
professionali, ad esempio, la posa di serramenti – con in tasca “L’Unità” – per
l’Arsenale Militare del Canton Ticino, oppure per un collegio di monache
Canossiane, o ancora alcuni metodi spicci che il Chinello-imprenditore applica
per il ‘recupero crediti’, smontando rapidamente i manufatti non pagati), si
coglie nell’insieme una passione corale per il lavoro come strumento di
emancipazione, individuale e collettiva, che non riguarda solo il salario e il
guadagno, ma anche e soprattutto il ‘ruolo’, nell’ambito di una socialità
multiforme, che nei paesi sembra perdurare a lungo, pur affievolendosi, nei
decenni dal dopoguerra in qua.
In queste trasformazioni,
nella nostra zona, sono molti gli operai (come Mario, ed altri personaggi dei
due libri) che – benché penalizzati da una scarsa scolarizzazione – si fanno
“classe dirigente”, sia perché divengono imprenditori, sia perché divengono
quadri politici o sindacali o – soprattutto – validi amministratori locali
(Mario quasi tutte queste diverse cose…).
Il tirocinio di Mario Chinello
come consigliere e assessore comunale iniziò affrontando – nel 1970 – situazioni
di arretratezza oggi poco immaginabili “…
il bilancio era scritto a matita … il resoconto dell’anno precedente non
esisteva … addirittura mancavano alcune delibere, … solo annotate e mai
approvate dal Consiglio Comunale” ed ai debiti fuori bilancio della
precedente amministrazione si associava la carenza dei servizi, dai più
elementari, come l’acqua potabile e la raccolta rifiuti, al riscaldamento delle
scuole primarie (le tre aule delle medie erano ricavate tramezzandone la
palestrina).
Lo slancio verso la giustizia
sociale e la solidarietà (ad esempio riuscendo a far pagare anche ai benestanti
l’Imposta di Famiglia) si intrecciava quindi strettamente con la modernizzazione
e la ricerca di efficienza delle pubblica amministrazione, condizioni
necessarie anche per il progresso delle classi subalterne.
Ed anche con l’attenzione ad
una legalità sostanziale, che talvolta confligge con la legalità formale, come
quando – ormai negli Anni ’90 – da Sindaco
affrontò di petto alcuni gravi e ricorrenti fenomeni di vandalismo ad
opera di gruppi di giovani tra i 16 anni (incendio di cassonetti
dell’immondizia) e gli oltre 20 anni (fino al ribaltamento e rottura della
“croce di pietra” posta in capo al centro storico) – segno di un degrado
sociale, perché, osserva l’Autore, qualche monelleria la facevamo anche noi, ma
quando avevamo dieci anni al massimo – :
se in un primo caso Mario sequestrò un ragazzino, ma non riuscì a consegnarlo
ai Carabinieri, perché dopo le ore 20 la Caserma non apriva i battenti (ed i 2
vigili urbani, come sempre, “non erano di turno”), nel secondo caso ne stese
uno a cazzotti, ma venne denunciato dalla vittima stessa (e banda connessa),
finendo però con una condanna lievissima dal saggio Pretore di Borgomanero.
INTERVISTA
SULL’UTOPIA COMUNISTA
Le valutazioni di politica
generale espresse nei 2 volumi culminano a mio avviso in un giudizio equanime
(a posteriori) sullo scontro PCI-DC : “Alla luce dei fatti, devo dire che c’erano
ragioni da ambo le parti. La Democrazia Cristiana e i suoi alleati avevano
capito che quel sistema politico [il socialismo reale] creava delle gerarchie
intoccabili e che non sarebbero mai state democratiche, noi comunisti, che la nostra
classe politica [democristiana] avrebbe sempre favorito lo sfruttamento dei
lavoratori, mantenendoli lontani dal potere….” “Devo riconoscere che anche
dall’altra parte del muro le cose non sono andate poi così bene…”
Poiché
la strenua militanza di Mario Chinello, intessuta però con la sua carriera
lavorativa in prevalenza in piccole imprese (da ultimo come imprenditore), non
risulta caratterizzata in prevalenza dall’aspetto sindacale diretto, di lotta
per le condizioni contrattuali aziendali, ma mi sembra piuttosto caratterizzata
da manifestazioni e volantinaggi ai cancelli di altre fabbriche, e da
iniziative di partito (dalla diffusione dell’Unità alle Feste dell’Unità),
nonché poi dalla ricchissima esperienza amministrativa, per migliorare i servizi,
il benessere e la convivenza civile, dopo la lettura delle sue memoria (che non
riporta molto dei contenuti delle lunghe discussioni e chiacchierate, tra amici
e compagni o con avversari politici) mi sono rimaste alcune curiosità,
soprattutto sul versante utopia/realismo, che ho tradotto nelle domande della
seguente intervista.
DOMANDA 1: Ricordando
la retorica rivoluzionaria del PCI (rammento che a noi estremisti veniva detto
che il PCI avrebbe fatto la vera rivoluzione, sia pure con metodi democratici),
cosa pensavate veramente Voi militanti, sia del “socialismo reale”, sia della
società socialista che immaginavate in Italia? (Cioè, parafrasando i Tuoi
titoli “ciò che avresti voluto”, quando “il rosso” era ancora “di giorno”?)
RISPOSTA 1: A me è sempre stato chiaro un fatto: il PCI
non sarebbe mai stato un partito rivoluzionario, nel senso vero del termine.
Una rivoluzione armata in Italia non l'ho mai concepita, né percepita nelle mie
frequentazioni giovanili dentro gli organismi federali del partito; si pensava ad una vera
rivoluzione di stampo culturale, di rifondare il sistema dando piena attuazione
alla Costituzione nata dalla Resistenza. Il dibattito nel partito era assai
vivace e contrastato: diversi compagni tra i più anziani, avrebbero sposato
volentieri le tesi rivoluzionarie di Pajetta, Cossutta, e dello stesso
Moscatelli, ma i discorsi si arenarono sul metodo e su come coinvolgere la
classe operaia, che al di là di poche frange estremiste, non vedeva questa via
praticabile ed utile per migliorare la loro condizione.
L'invasione della Cecoslovacchia del
1968 fu lo spartiacque definitivo, il Partito assunse una posizione netta e da
quel momento in poi si avvertirono molti dissensi verso l’URSS. Otto anni dopo,
Enrico Berlinguer espresse il pensiero politico del PCI, che ruppe con
l’egemonia politica del PCUS e lanciò il cosiddetto “comunismo dal volto
umano”.
Non fui mai un revisionista, passavo
per uno dei duri nel partito, non so se con molta ragione. Il mio impegno era
quello di lottare per l'emancipazione delle masse, renderle consapevoli dei
loro diritti e doveri, organizzare il partito perché in ogni luogo si potesse
far giungere la sua voce. Questo era un obiettivo praticabile e alla portata di
tutti, se tutti avessero fatto la loro parte. A partire dagli anni Sessanta,
ciò fu possibile perché con la forte immigrazione dal Veneto e poi dal nostro
Meridione, soprattutto dalla Calabria, il lavoro di convincimento ideologico
non mancava, e si coglievano risultati assai convincenti anche sotto l'aspetto
elettorale.
Non essendo mai stato sindacalizzato
da adulto, non ho vissuto il dibattito interno al movimento operaio, ho potuto
giovarmi di grandi compagni che operavano nella CGIL, da loro ricevevo le
notizie, le voci di conquiste e purtroppo anche di sconfitte dentro il mondo
operaio.
Eravamo un partito internazionalista,
questo sì! Le battaglie per sostenere la causa dei Paesi in via di sviluppo
erano massicce e convinte, raccoglievamo fondi da destinare un po' ovunque:
Cuba e il Sudamerica, l'Africa, il Vietnam, il Sudafrica, il Cile, la Grecia
dei colonnelli, e avevamo qualche idea molto simile allo jugoslavo Tito, leader
dei Paesi non allineati.
La prematura scomparsa di Berlinguer
lasciò una traccia indelebile nel corpo dei militanti del partito, e fu dopo di
allora che non fummo più in grado di essere egemoni nel mondo del movimento
operaio ed intellettuale. Mi sarei accontentato di vedere crescere una
coscienza di classe convinta, democratica e capace di creare consensi e quadri
importanti per gestire la cosa pubblica, a partire dalla sanità, la scuola, lo
sport e la tutela ambientale, che non sono mai stati un fiore all'occhiello del
nostro Paese. Insomma, ero convinto si potesse attuare il famoso: “Socialismo
dal volto umano”.
DOMANDA 2: In qual modo
queste visioni dell’Est e del futuro cambiavano con le grandi svolte di quel
periodo, dalla rivolta di Ungheria (e dintorni) nel 1956, al grande crocevia
del ’68 (Vietnam, Cecoslovacchia, movimenti giovanili), fino al “compromesso
storico” ed alla tragedia di Aldo Moro nel 1978?
RISPOSTA 2: Quando a sedici anni iniziai la mia vita
politica partecipando a riunioni settimanali nelle sezioni, una volta al mese
in Federazione a Novara, il sentimento che girava tra i compagni adulti, era
assai più vicino alle posizioni di chi vedeva ancora all'orizzonte il “sol
dell’avvenir”. Nemmeno i recenti fatti dell’invasione dell’Ungheria, attuata
dai paesi del Patto di Varsavia, avevano scosso il loro credo, volto a
realizzare il comunismo in Italia.
Come già anticipato nella prima
risposta, il convincimento che si potesse concretizzare la svolta comunista,
via via si affievolì in seguito agli eventi storici succedutisi dal 1950 al
1970. Un ventennio che vide esaurirsi molte certezze e che, con la permanente
presenza americana nella vita politica ed economica del nostro paese, si era
capito che la possibilità di creare le condizioni per una via socialista in
Italia (la terza via), erano precluse.
Si cercò di contrastare l'imperialismo
americano con tutti i mezzi leciti possibili, le manifestazioni indette dal
PCI, seguite timidamente da frange del PSI, ancora non preda del Craxismo,
furono moltissime ed assai partecipate, ma i frutti furono pochi e senza
influenzare oltre misura le masse popolari italiane. In quegli anni, molti
giovani aderirono al PCI, ma molti altri, soprattutto studenti e intellettuali,
artisti e gente di spettacolo, aderirono o simpatizzarono per i movimenti
studenteschi e gli antagonisti di sinistra, vera spina nel fianco del più grande
partito comunista dell'intero Occidente.
Io che ero tra i più giovani
attivisti, pur cercando di capire le ragioni dei vari movimenti giovanili, tra
cui spiccava Lotta Continua, ho sempre pensato che avrebbero creato più danni
al movimento dei lavoratori che benefici e conquiste, purtroppo i fatti mi
hanno dato ragione, perché non riuscendo a sfondare dentro le masse operaie e
nella società, molti di quei bravi giovani, armati di un idealismo esasperato,
finirono per buttarsi nella lotta armata. Gli esiti li conosciamo tutti.
Dopo i tragici fatti del Cile, con
l’assassinio di Allende, Berlinguer indicò la via del Compromesso Storico, una
via che trovò molti ostacoli all’interno del partito, dopo oltre trent’anni di
contrapposizione con la DC, si sarebbe dovuto cercare la collaborazione e
partecipare a scelte che ci avevano sempre visti contrari, e che avevano il
timbro della DC. Fu Aldo Moro, con il suo atteggiamento prudente da statista
navigato, che riuscì a stemperare gli animi contrari e creare le condizioni per
un ruolo nuovo del PCI. Lo capirono benissimo i manovratori occulti della
politica italiana, con il ruolo primario dei servizi segreti deviati,
dell’organizzazione di Gladio, manovrati da Gelli e dalla P2, i quali si
inserirono ad arte tra le neocostituite brigate rosse, questi, lavorando su più
livelli e in combutta con i movimenti estremisti di destra, fecero assassinare
Aldo Moro, interrompendo così l’appena avviato Compromesso Storico. A ragion
veduta, fu un duro colpo per la sinistra, tutta! Anche chi pensava di trovarsi
schierato a sinistra del PCI, subì un grave contraccolpo e molti di quei
giovani estremisti, in poco tempo, finirono per imbarcarsi con la destra di
governo, soprattutto, con il rampante e nuovo Berlusconi.
Dopo il cosiddetto CAF: Craxi
Andreotti Forlani, nulla fu più come prima, le perdite di consensi nel Paese
furono una conseguenza del mancato arrivo del Partito al governo, le masse
sfiduciate, secondo me sbagliando, scelsero di votare per i partiti di governo,
indebolendo il PCI e vanificando molte conquiste che si erano strappate alle
destre negli anni 70. Esse furono: lo Statuto dei lavoratori, 20 maggio 1970;
la legge per il divorzio, 18 dicembre 1970; la legge 1044 per gli asili nido, 6
dicembre 1971; il nuovo diritto di famiglia, 19 maggio 1975; la legge sull’aborto,
22 maggio 1978; la legge di riforma sanitaria, 23 dicembre 1978. Solo per
citare le più importanti e quelle che hanno avuto il pieno e combattivo
supporto del PCI. Venendo meno il PCI, causa le note vicende internazionali ed
anche nostrane, finì assai presto il baluardo contro le destre e il clero
imperante in Italia, e adesso ci asciughiamo le lacrime.
DOMANDA 3: Le speranze
dei Vostri orizzonti erano perciò più ampie degli obiettivi per cui Vi siete
concretamente battuti e che in parte sono stati raggiunti (e poi anche
rimangiati), come i diritti sindacali, dei salari decenti, l’istruzione, la
salute e la casa per tutti (obiettivi validissimi e purtroppo abbastanza
utopici, non solo dopo la guerra, ma forse ancor oggi)?
RISPOSTA 3: Le speranze dei nostri
orizzonti…pur essendo sempre all'opposizione, non furono del tutto disattese,
senza la nostra forza organizzata e senza le mille battaglie intraprese, anche
le citate conquiste non sarebbero maturate, quindi, non è stato tutto
fallimentare, anzi. Certo, ci sono molte cose che si sarebbero potute fare,
però ci voleva la forza dei numeri ed anche delle idee.
Fin dagli anni Ottanta avvertii un
disamoramento nei confronti della politica, che se per gli altri era normale
(lì contavano i soldi ed il potere fine a stesso) per noi fu letale. L'avvento
del berlusconismo ha sconvolto la politica italiana, anche quella della destra
democratica, creando condizioni di assoluto disinteresse per la cosa pubblica,
e un indottrinamento mediatico che ancora sta imperando.
La trasformazione produttiva e la
delocalizzazione all'estero di grandi fabbriche, hanno contribuito alla
polverizzazione del mondo produttivo, e le nuove forze progressiste, post PCI,
si stanno dimostrando incapaci a gestire i cambiamenti. La mia storia sta per
giungere al termine, quella politica lo è già da qualche anno; non ho molti
rimpianti, credo di avere fatto la mia parte ed anche quella di molti altri,
che invece hanno scelto di stare ai margini della vita politica e
istituzionale, o che addirittura sono saliti sul carro dei vincitori (almeno
per adesso), rinnegando il loro passato ed i sacrifici di milioni di militanti
veri. Se vogliamo, questo è - dal punto
di vista politico - il mio grande dispiacere.
Fonti:
1.
Mario
Chinello – CIO’ CHE NON HO VOLUTO – Eos editrice, Romentino 2015
2.
Mario
Chinello – ROSSO DI SERA – Pubblicato dall’autore, 2021
3.
https://www.noipartigiani.it/silva-vinicio/
[1]
“La nonna [Pasqua] e la nuora Maria si misero
alla testa di un nutrito numero di donne; salirono su un carro di quelli
piatti, trainato da due buoi, fissarono quattro bandiere rosse del PCI agli
angoli … e cantando a squarciagola “Bandiera Rossa” e “L’Inno dei Lavoratori”
si avviarono verso il seggio… Già che c’erano, senza alcuna autorizzazione e al
di fuori di ogni regola sui comizi…, percorsero avanti e indietro tutta la via
principale, sotto lo sguardo attonito dei democristiani e dei destrorsi, con il
gaudio di tutta la sinistra e di noi ragazzini, che cantavamo insieme a loro.
Arrivate al seggio, scesero dal carro con le bandiere svolazzanti in mano e,
senza trovare alcuna resistenza, entrarono per votare. Si fecero consegnare la
scheda e, a turno, ognuna votò di fronte a tutti. Dopo averla fatta svolazzare
sotto gli occhi dei presenti, la piegarono diligentemente e la infilarono
nell’urna”
“Nelle
stesse ore in cui nonna Pasqua faceva la rivoluzionaria ai seggi elettorali, la
nonna Pina era invece chiusa in camera con la porta serrata a chiave e le
finestre con i “belconi” inchiodati
dall’esterno. Il nonno l’aveva chiusa … e ci rimase fino alla fine delle
votazioni! …[invocando invano il marito] … “Carlo
àsseme andare a votar, che votarò par ti” e lui di rimando “Tàsi che te sì imbriaga de incenso e te
voti per chei sachi de carbon”, … per lui i sacchi di carbone erano i preti
sempre rigorosamente vestiti con gli abiti talare lungo e nero”.
[2]
Un
compagno della Facoltà di Architettura di Milano, originario del basso Piave e
poco più giovane di Mario Chinello ci raccontava la sua infanzia e adolescenza
in un ambiente simile alla “cucina del castello di Fratta” (vedi Ippolito
Nievo): e che la modernità iniziava solo dal Cavalcavia di Mestre
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