“Il Capitale nel XXI secolo” di
Thomas Piketty (giovane economista francese di impostazione classica), edizione
italiana Bompiani 2014, 635 pagg. , è un best seller mondiale, premiato alla
fin fine come libro dell’anno in materia di economia dallo stesso Financial
Times che aveva invano tentato di stroncarne l’attendibilità statistica
(riguardo al crescente divario tra ricchi e poveri negli ultimi decenni),
mentre Piketty ha scelto di rifiutare la “Legion d’Onore” dalla sua Republique.
Il successo di Piketty è a mio
avviso ampiamente meritato, sia per la vastità ed originalità delle ricerche
compiute e/o utilizzate (disponibili in Internet), sia per la chiarezza e
scorrevolezza del testo, ben leggibile in tutte le numerose pagine (e note) ed
anche attraverso le poche formule matematiche ed i molti grafici esposti per
spiegare il cuore del problema, ovvero la costante tendenza alla accumulazione
e concentrazione del capitale, che diviene massima quando la crescita
(demografica e produttiva) è debole, cioè inferiore al 2% annuo (come si
profila stabilmente nei paesi sviluppati dalla fine del XX secolo), mentre il
rendimento medio dei capitali supera il 4% (con accelerazioni crescenti per i
patrimoni più elevati).
Il libro è soprattutto un
grandioso affresco sulla formazione ed accumulazione dei capitali (immobiliari e mobiliari) e della tassazione
delle ricchezze (successioni, rendite, patrimoni, redditi) dal secolo XVIII al
XXI.
Fonti primarie delle ricerche sottostanti alle elaborazioni
di Piketty sono i dati derivanti dalla moderna imposizione fiscale, che non a
caso ha origine con la Rivoluzione Francese, con divertenti escursioni verso la
letteratura (soprattutto i romanzi di Jane Austen e di Honorè de Balzac,
testimoni di entità e concezioni patrimoniali del XIX secolo) e verso altre
fonti, tra cui hanno un ruolo defilato le teorie di altri economisti,
contemporanei e non.
Tra questi Marx, che Piketty non assume come maestro, ma di cui mostra
i conoscere le opere – diversamente da quanto affermano altri recensori -,
rinfacciandogli in sostanza di sottovalutare la ricerca dei dati, pur allora in
parte disponibili, in favore di pregiudizi ideologici o meglio di affrettate
conclusioni politiche, e comunque di aver trascurato gli effetti complessivi
delle mutazioni tecnologiche.
L’adesione alle statistiche
fiscali, accessibili soprattutto nei paesi occidentali, ed in parte solo dal XX
secolo ben inoltrato, è anche parziale spiegazione di una limitata attenzione
dell’Autore a fenomeni non misurabili con tali strumenti, come:
-
la quota di ricchezze che comunque sfugge al
fisco (in taluni casi valutata da Piketty con stime indirette),
-
i paesi poveri, che in genere non hanno
sviluppato (e non per caso) una solida cultura fiscale, e conseguentemente
anche il divario ricchi/poveri a scala mondiale, che è enunciato ma non
approfondito (dopo l’epoca coloniale Piketty non riscontra flussi univoci nei
trasferimenti internazionali), anche perché indica già come enorme e scandaloso
la crescente polarizzazione all’interno dei paesi ricchi,
-
la struttura sociale e ideologica delle
“classi”, che Piketty, per ricerca di scientificità, per lo più riduce a fasce
statistiche (il “decile”, il “centile”, il “millile” più ricco, e poi tutti gli
altri, suddivisi tutt’al più in 2 parti, negli ultimi decenni, ovvero un ceto
medio che possiede qualcosa, molto al di sotto delle vere élites finanziarie,
ed i restanti che non possiedono pressoché nulla),
-
sporadica, ma non assente, è pertanto anche la
correlazione con i conflitti sociali,
-
il valore effettivo delle grandezze economiche,
sempre esaminate nella loro misura monetaria (espressa in potere d’acquisto,
depurato dall’inflazione), e quindi inclusive di bolle speculative così come di
sostanziali dis-valori (il tema dei rischi ambientali del pianeta è però
accennato da Piketty in termini di potenziale erosione del capitale).
Riassumendo schematicamente
l’evoluzione storica rappresentata nel testo (e ignorando qui le peculiari
differenze nazionali, ben indagate nel testo), si può affermare che:
-
nel XIX secolo si ha una costante concentrazione
dei capitali (prima fondiari e poi in prevalenza mobiliari) ed una crescita
mediamente bassa, con i ceti medio-bassi schiacciati in una sostanziale
povertà; la tassazione, anche dove colpisce i patrimoni nelle successioni, è
bassa e non proporzionale; lo Stato limitato alle funzioni basilari (esercito,
giustizia, infrastrutture);
-
all’inizio del XX secolo le differenze in favore
di coloro che vivono di rendita (“rentiers”) si accentuano e si affacciano, ma
vengono per lo più respinte, le prime proposte di tassazioni universali e
progressive sul reddito;
-
il periodo 1914-1950, con le 2 guerre mondiali,
la rivoluzione sovietica e la grande crisi del ’29, ha – attraverso turbolenti
rivolgimenti - l’effetto di un
temporaneo (ed “involontario”) “suicidio del capitale”, variamente colpito da
distruzioni belliche e svalutazioni intrinseche, inflazione al galoppo e
prelievi fiscali talvolta molto severi;
-
i successivi “trenta anni gloriosi”, tra il 1950
ed il 1980, a partire dalla ricostruzione nei paesi più distrutti, vede una
forte crescita (con medie del 5% annuo, al netto dell’inflazione talora però
rilevante), la piena affermazione di uno “stato sociale” (istruzione, sanità,
pensioni), minori disuguaglianze (più giustificate, anche verso l’alto dalle
differenze nei redditi da lavoro) ed una accumulazione più lenta del capitale;
-
a partire dal 1980, con la svolta
pro-capitalistica di Thacher e Reagan (anche per reagire ad un declino di USA e
GB) e poi con il crollo del blocco sovietico, si sviluppa e si consolida un
nuovo assetto, caratterizzato dal contenimento delle funzioni statali, la
riduzione delle tasse e del controllo sui capitali, una netta ripresa della
accumulazione e concentrazione delle ricchezze, nonché delle disuguaglianze
sociali (inclusi redditi da lavoro, ora rilevanti anche tra i ceti più ricchi,
ma connessi ad una forte selezione sociale nell’accesso ai livelli di
istruzione più elevati e conseguenti carriere) in un contesto di modesta
inflazione e bassa crescita (esclusi i paesi emergenti).
-
(lungo il
percorso storico Piketty si applica anche – dati alla mano – a confutare
diffusi luoghi comuni diffusi, talvolta ad arte, lungo i 350 anni in esame:
dalla propaganda della Terza Repubblica francese su una uguaglianza già
conseguita dai “cittadini” nella rivoluzione di un secolo addietro al mito
degli USA come società aperta alla mobilità sociale, che era forse vero
nell’Ottocento ma è radicalmente smentito dai dati degli ultimi decenni).
In assenza di sconvolgimenti (ed
escludendo di fatto l’ipotesi teorica di una sovrabbondanza “infinita” di
capitale, capace di abbassarne la rendita), Piketty prevede per i prossimi
decenni un proseguire della prevalenza del tasso di rendimento del capitale sul
tasso di crescita, e quindi un progressivo aggravamento della polarizzazione
delle ricchezze in favore di ristrette minoranze, con conseguenze economiche e
sociali non sostenibili (cioè foriere per l’appunto di ”sconvolgimenti”) e
quindi propone una cura drastica, mediante una “tassazione mondiale
progressiva” sui capitali (da integrare con imposte progressive sui redditi e
sulle successioni), previo conseguimento di una totale trasparenza internazionale
su tutti i movimenti finanziari.
Consapevole del carattere utopico
della proposta (ma, rammenta Piketty, anche la tassazione progressiva dei
redditi rimase assai a lungo un’utopia, prima di essere realizzata nel cuore
del Novecento), l’Autore articola anche soluzioni intermedie, in parte
articolate sulle situazioni specifiche dei paesi poveri (dove – India compresa,
ma non la Cina, il problema primo è la mancanza di un moderno stato, fiscale e
sociale), degli USA e del mondo
anglo-sassone e soprattutto dell’Europa, con i suoi problemi specifici di
debiti, austerità e unione monetaria incompiuta (su cui il libro sviluppa una
trattazione estesa, ma concisa, che raccomando alla lettura – capitolo 16 --, e
su cui non mi soffermo per non dilungare troppo questa recensione)
Diversamente dal suo non-maestro Karl Marx, Thomas Piketty non si
spinge a occuparsi del percorso politico necessario per arrivare alla svolta
auspicata e degli enormi problemi sociologici ed antropologici connessi, ma
rivendica illuministicamente l’utilità del suo contributo nella battaglia
ideologica contro le false rappresentazioni dominanti sulla diffusione e
sviluppo della ricchezza; nella conclusione Piketty sollecita gli economisti ad
uscire dalla pseudo-scienza degli algoritmi micro-economici ed a riconoscersi
all’interno delle altre “scienze sociali”.
PERVENUTO VIA E-MAIL
RispondiEliminaBellissimo lavoro di sintesi. L’analisi dell’evoluzione storica dell’accumulo di capitali dal XIX sino ad oggi racchiusa in mezza pagina è utilissima.
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R.S.