Bernardo Secchi, “Prima lezione di urbanistica” – Laterza,
Bari 2000 – pagine XI+200 - € 12,00 (e-book disponibile a 8,49 €)
Secchi è divenuto docente e preside della facoltà di architettura di
Milano nella seconda metà degli anni 70, quando chi, come me, “aveva fatto il ‘68”
si trovava già disperso sul territorio a
rimasticare il “riflusso” (delle lotte ’60-‘70); nonché a fare, nel mio caso ed
a mio modo, l’”urbanista condotto”.
Penso di non averlo nemmeno mai incontrato in convegni INU o regionali,
ma l’ho man mano apprezzato, come uno dei maestri, qual è, dell’urbanistica
italiana di fine ‘900, per i suoi testi pubblicati sulle riviste dell’INU (da
ultimo a proposito del suo lavoro ad Anversa e Parigi, che ne testimoniano il
ruolo internazionale, non comune tra gli urbanisti italiani) e, nel
merito, per la sua attenzione “in alto”
alle radici etiche epistemologiche della disciplina e “in basso” alla
concretezza del progetto del suolo e della sua gestione quotidiana manutenzione
(fatica quotidiana di cui nel mio piccolo mi sono occupato come tecnico
comunale).
Solo nel 2011 mi sono tardivamente imbattuto nella sua “1^ lezione” ed
ho volentieri compiuto un ampio ripasso in materia, convenendo con uno dei suoi
assunti fondamentali, che l’urbanistica non è una scienza.
Il volume, benché di “sole” 200
pagine, è molto denso, e quindi difficile da riassumere (consiglio piuttosto di
leggerlo integralmente); schematicamente si occupa di:
-
Urbanistica (definizioni, origini storiche,
rapporto con altre discipline)
-
Figure retoriche del racconto urbanistico
(continuità, frammento, regolarità, concentrazione/decentramento, equilibrio,
processualità)
-
Urbanisti (ruolo dialettico rispetto agli altri
soggetti e agli altri saperi)
-
Radici storiche e culturali: storia
dell’urbanistica non è “storia della città”, bensì “sapere nomadico ed
esogamico”, sintesi spuria tra scienze naturali, e scienze sociali, arti
figurative;
-
Città moderna e città contemporanea: ‘900 come
transizione, disagio verso la modernità e sua nostalgia – aspetti fisici e
sociali – esemplificazione su abitazioni, grandi contenitori, spazi aperti,
dismissioni, mobilità;
-
Progetti ovvero tendenze: post-moderno,
neo-classico, “renovatio urbis”; il piano come “macchina non banale”
-
Progetto della città contemporanea:
“dispersione, frammentazione, eterogeneità, frammistione, accostamento
paratattico e anacronistico di oggetti, di soggetti, di loro attività e
temporalità, fanno sì che territori e città contemporanei non possono essere
affrontati con progetti che si spingano in ogni punto ad un identico livello di
definizione ---- ma ciò non significa che la città contemporanea non possa e
non debba essere investita da un progetto concettualmente unitario” “Città contemporanea che già esiste, ma resta
in attesa di un progetto ---“
-
“Attraversare il tempo”: impossibilità di
previsioni lineari e/o di prefigurazioni desiderabili – occorre costruire
scenari, anche diversi ed alternativi, per far convergere, ne tempo e nello
spazio, pluralità di attori singoli e divergenti (società di minoranze) – non tanto obblighi e divieti (inefficaci e
contro-producenti) ma “esplorazioni progettuali”: l’urbanista, oltre che
produttore di progetti con un elevato contenuto tecnico, è produttore di
immagini, racconti, miti” per dare “unitarietà all’interazione sociale, rendendola
possibile” – urbanistica come scrittura ”epica e polifonica, che trascende la
contingenza.
-
(Polifonia: l’intero testo è percorso da
richiami e parallelismi con altre discipline scientifiche ed artistiche, tra
cui la musica del ‘900, da Schonberg a Stravinski, a Berio, ecc.).
Il pensiero di Secchi cerca di superare una
certa crisi dei modelli razionalisti e positivisti dell’urbanistica moderna,
senza scadere nella accettazione acritica o peggio nella esaltazione della
città caotica/diffusa/dispersa, alla ricerca di nuove e superiori razionalità
(vedi POST su Boeri e gli ESPLORATORI DELLA CITTA' DIFFUSA, e PAGINE- PARTE 3^).
Non mi convince però il nocciolo della
contrapposizione da Lui proposta tra “città moderna” e “città contemporanea”,
perché la prima, in Europa, non è di fatto mai esistita, se non come idea o
progetto, oppure come frammento: quartieri periferici, new towns, alcune
ricostruzioni post-belliche o dopo disastri naturali, sempre però parti di
realtà urbane più vaste e complesse; solo in altri continenti si sono
realizzate – e si stanno realizzando - intere città di nuova fondazione,
coloniali o post-coloniali (Brasilia, Canberra).
La quasi totalità dei sistemi urbani europei
ha attraversato la modernità come trasformazione, sempre incompleta e
contradditoria, dei loro precedenti assetti di città più o meno antiche.
E anche l’urbanistica del movimento moderno
al di là dei piani utopici e delle semplificazioni teoriche, ha sempre dovuto nei
fatti fare i conti con la complessa stratificazione storica del territorio
reale, non solo in termini di riconoscimento (e poi di tutela) dei “centri storici”, ma anche riguardo a
numerosi aspetti disciplinari, dalla conformazione delle reti di trasporto alla
articolazione culturale dei bisogni (ad esempio a resistenza di parte degli
ex-contadini ad inurbarsi in contenitori edilizi densi, con la propensione
invece a varie tipologie di case, in rapporto residuale ma importante con il
verde “agricolo”, seppur ridotto a orto o giardino: vedi INA-case, periferie a
casette singole, villette a schiera).
In Italia, già la legge 1150 del 1942 (ma
anche in nuce in parte i precedenti Piani Regolatori) prevedeva un approccio
differenziato alla città “per parti”, e poi, dalla legge 765/67 (con il D.M.
2-4-1968) alle leggi regionali di prima generazione (es. Lombardia n° 51/75 e
Piemonte n° 56/77), pur in un’ottica razionalista, i sviluppa un’attenzione al
territorio piuttosto articolata, sia per tipo di aree (divise almeno in
A-B-C-D-E), sia per problematiche, che iniziano ad essere variegate e
“divergenti” da un’impostazione classica di puro disegno azzonativo: entrano
l’idrologia, la geologia, l’ambiente, al tutela dei suoli agricoli …
Nel contempo irrompono nella prassi, con i
movimenti degli anni ’60 e ’70, le soggettività dei bisogni, apparentemente “massificati”
nelle tematiche (lavoro, casa, servizi, trasporti), ma nel profondo già ricche
di elementi antropologici differenziati: ad esempio sul tipo di casa, sulla
localizzazione di lloggi e servizi, sulla tipologia dei servizi ….
E con il “Rapporto di Roma” e la prima crisi
energetica del 1973 anche la consapevolezza dei limiti delle risorse e della
crescita.
Il periodo 1960-1980 a mio avviso contiene
già gran parte degli elementi dialettici necessari per fronteggiare le
tematiche attribuite da Secchi alla sola “città contemporanea” (eravamo già “contemporanei”,
senza saperlo?).
E’ lo stesso concetto di “città contemporanea”
ad essere oscuro, in quanto non opponibile alla “città moderna”: perché questa
non esiste in quanto tale, in Europa, come sopra affermato, e perché comunque
nella sua concretezza (diversamente che nelle teorie) la nostra modernità era già
intessuta di contraddizioni tipicamente “contemporanee”.
Oltre alla relativa probabile obsolescenza
dei termini (dopo il moderno è venuto il post-moderno; dopo il contemporaneo
possiamo immaginare un “post-contemporaneo”?) mi permetto di avanzare il dubbio
che il nocciolo della questione, per classificare storicamente le problematiche
della evoluzione territoriale, risieda piuttosto nella diversa qualità dei modi
di produzione (ad esempio città fordista e post-fordista, città in prevalenza
industriale oppure terziaria), le cui dinamiche sono per altro differenziate
nello spazio mondiale, nell’ambito del processo di globalizzazione, cosicché
contemporaneamente coesistono fasi diverse (fenomeno più difficile da spiegare
con la terminologia Moderno/Contemporaneo).