domenica 28 dicembre 2014

AUTO-RETE?

Il sistema politico tradizionale continua a darsi da fare parecchio per tenere in piedi il consenso al Movimento 5 Stelle (in quanto principale forza dell’“antipolitica”):
-          nella sua parte sommersa, il sistema politico tradizionale si impegna a fondo con la diffusa e persistente corruzione, di cui l’inchiesta su Roma mostra un impressionante campionario
-          nella sua parte ufficiale, il sistema politico tradizionale si applica innanzitutto con l’incapacità o non-volontà di incidere sul suddetto sommerso (ad esempio il pacchetto delle proposte governative sulla giustizia aveva perso pezzi e priorità, riguadagnandole in parte solo in rincorsa allo lo scoppio dello scandalo romano) e poi con una serie di decisioni o non-decisioni di dettaglio molto discutibili, pur nell’ambito della linea Renzi (che comunque genera necessariamente un certo scontento, dal job act ai confini della platea dei destinatari degli 80 euro): penso alle partite IVA, cui vengono dedicate promesse all’indomani della legge di stabilità che le ha appena trattate non tanto bene, oppure al mancato rinvio delle scadenze fiscali per gli alluvionati; e al fondo la mancata riduzione del numero e delle indennità dei deputati, riservando i tagli per i politici  solo a Senato e Provincie (ma coinvolgendo invece gli incolpevoli dipendenti provinciali).

Tuttavia mi pare che il M5S resti strategicamente in crisi, e che l’iniziativa della raccolta-firme-per-una-legge-di-iniziativa-popolare-per-avvicinare-un-possibile-referendum-contro-l’Euro ne evidenzi le drammatiche dimensioni:
-          per lo strumento giuridico debole e indiretto che sta al centro della proposta
-          per il contenuto avventurista di una uscita unilaterale dall’Euro senza paracadute (come si pagano i debiti pregressi in euro e dollari? Oppure, come si pensa di poter commerciare con l’estero senza pagare il debito pregresso? A che prezzi salgono le importazioni?)
-          per la difficoltà di avvicinare con le firme il numero di elettori in precedenza raggiunto (8.688.231 nel 2013): anche superare 1 o 2 milioni di adesioni alla proposta di legge sarebbe una sostanziale sconfitta
-          per il ripiegamento sulle firme “cartacee” da parte di un Movimento che sbandierava la “rete” come nuovo orizzonte della democrazia (ma riserva il diritto di voto interno “on line” ai soli soci fondatori, per paura di cimentarsi con la viva realtà del popolo cliccante, e del popolo in generale).

E che rasenti il patetico quando il “non-leader” Grillo rispolvera ancora contro Napolitano il mito della “vittoria mutilata”; in tale “mistero doloroso” il Presidente della Repubblica nel 2013 avrebbe dovuto conferire l’incarico di formare il governo ai M5S in quanto lista più votata:
-          anche se il M5S scavalcò il PD solo alla Camera ed esclusi i voti all’estero
-          anche se la vigente legge elettorale conferiva il premio di maggioranza alla prima coalizione (nella fattispecie PD+SEL+altri) e non al primo partito

-          anche se la Costituzione non vincola il Presidente della repubblica a conferire incarico al partito che ha preso più voti, bensì gli affida la responsabilità di individuare chi potrà trovare la fiducia di una maggioranza parlamentare.

giovedì 18 dicembre 2014

VICOLO CIECO?

Nel 2002 la sola CGIL, mediante manifestazioni, e senza sciopero, riuscì a difendere i lavoratori dai licenziamenti-individuali-senza-giusta-causa (art. 18 dello Statuto dei Lavoratori), di fronte ad una maggioranza  governativa di centro-destra.
Nel 2014 CGIL e UIL, pur scioperando, e manifestando, non sono riuscite ad incidere sulle decisioni in materia di una maggioranza di centro-sinistra, con cui l’art. 18, che già era stato de-potenziato nel  2012 da un governo di larghe intese a dettatura europea, viene ulteriormente smantellato, malgrado le attenuazioni ottenute in Parlamento (vedremo poi i dettagli nei Decreti Delegati del cosiddetto Job Act).
Questa parabola mostra, al di là delle contingenze storiche e delle qualità soggettive dei gruppi dirigenti sindacali e politici, l’indebolimento oggettivo del potere contrattuale dei lavoratori dipendenti italiani, minato dalla globalizzazione e logorato dalla crisi, sottoposto alla pressione “dei mercati”  e della politica filo-padronale dei poteri sovranazionali (Commissione Europea, BCE, FMI).

Tanto meno i sindacati, pur raccogliendo un discreto consenso nella protesta, riescono a rendere credibile una complessiva correzione roosveltiana (patrimoniale, investimenti pubblici) alla politica economica del governo Renzi, condizionata anch’essa dal mercato finanziario internazionale e dalle suddette connesse istituzioni sovranazionali e che appare priva di serie alternative (al di là dei suggerimenti più o meno attendibili di alcuni intellettuali, come Luca Ricolfi o il gruppo Gallino/Silos Labini/ecc., le opposizioni propongono ricette propagandistiche  e decisamente immangiabili: maggior debito, flat tax, uscita dall’euro, ecc.).

Non so se la linea Renzi-Padoan(-Draghi?), con i ristretti margini cui la costringono Merkel e Junker, può aspirare ad effettivi successi contro la crisi, ma non credo ci sia da augurarsi un suo fallimento, che  ci farebbe stare tutti peggio, e aprirebbe, temo, più spazi a destra che non a sinistra.
Insomma mi pare ci sia un po’ un’aria da vicolo cieco (nei cui rivoli, ad esempio, SEL tuona contro il PD, ma continua ad affiancarlo nelle elezioni regionali).

Tuttavia mi sembra importante che il disagio e il dissenso si esprimano e che si continuino a cercare modi razionali per raccoglierli, oltre la rabbia anti-casta e l’astensione.

Non sappiamo quali svolte può nascondere il vicolo cieco. 

I 10 COMANDAMENTI DI PIPPO CIVATI

Tra lo sciopero generale indetto da CGIL e UIL del 12-12 e l’assemblea nazionale del PD del 14-12, Civati ha fatto in tempo a infilare un assemblea a Bologna, interna/esterna al PD, per esporre un suo (ambizioso?) “patto repubblicano (e del non-nazareno)” in 10 punti.
Però sui giornali e TG si è parlato di Civati solo per ipotizzare se esce o non dal PD: perché mai lo faccia o non lo faccia, non fa notizia.
Il che è certo colpa dei giornalisti, ma anche un po’ di Civati, che se credesse di più ai suoi contenuti, anziché di preoccuparsi che “lo notino di più se viene o non viene, oppure viene e sta in disparte”, forse cercherebbe di tradurli in 2 slogan che bucano il video (ed emergono dal suo blog, che è invece pieno delle ultime infiorettate polemiche, e dove il testo dei 10 punti bisogna andarselo a cercare).

E, poiché ho fatto lo sforzo di trovare i 10 punti, ve li ri-propongo, con qualche commento in corsivo (nessun commento = “mi piace”), per capire se per caso si annidino lì le discriminanti decisive rispetto alla linea-Renzi e per rifondare una sinistra del XXI secolo.
Oppure no (anche se aderiscono, tra gli altri, Nadia Urbinati e Silvia Prodi).

Premessa: la sovranità appartiene al popolo
(ed in Europa gli investimenti dovrebbero essere esclusi dai limiti di Maastricht).
(il breve passo sull’Europa coincide con quello che già chiede Renzi, e Civati non spiega come meglio fare per ottenerlo)
1 - Ritorno alla legge Matterella (modello già in uso per il senato) e primarie obbligatorie per le candidature uninominali.
A parte l’obbligo di primarie, che forse vanno sperimentate, perché potrebbero comunque essere luogo di “plutocrazia” e/o clientelismo, non capisco la bontà intrinseca di una legge maggioritaria a turno unico, che può produrre un Parlamento frammentato ed ingovernabile; meglio correggere i difetti dell’Italicum
2 - Legge sulla democrazia interna ai partiti e tetto alle spese elettorali
3 - Referendum abrogativi con quorum meno elevati e referendum propositivi
4 - Diminuzione numero parlamentari e relative indennità e bicameralismo parziale (il Senato resta elettivo, con minori competenze)
Mi pare meglio dell’attuale riforma del Senato, ma non spiega se risolve lo strapotere della maggioranza (possibile anche con l’ex-Mattarellum) nella nomina di Presidente della Repubblica e altri organi di garanzia
5 - Legge conflitto interessi
6 - Istruzione università ricerca
Generico, non spiega cosa propone in più rispetto alla “buona scuola” di Renzi
7 - Green economy, rifiuti zero, zero consumo suolo, trasporti pubblici
Mi piace più dello “Sblocca-Italia”, ma mi sembra un po’ semplicistico
8 -  Contratto unico a tutele veramente crescenti (fino all’ex art. 18) e reddito minimo
Non spiega con quali risorse si estende il reddito minimo oltre a quanto promesso dal Job Act
9 - Diritti, matrimonio anche omosex, fine vita
Mi piace, ma trascura la cittadinanza ai figli degli immigrati
10 - Legalità, anti-corruzione, de-penalizzazione droghe leggere (perché qui?) e lotta all’evasione fiscale

Anche se gran parte delle proposte “mi piace”, e così credo piacciano a gran parte dell’elettorato storico di centrosinistra, e questo gradimento possa tradursi in consenso ad una formazione diversa dal PD (oppure ancora in future alternative congressuali inerenti al PD), mi pare che per una vera alternativa politica, volta a rifondare la sinistra in Italia (e non solo a raccogliersi in un club minoritario delle buone proposte) manchino:
-          uno sfondo approfondito sull’economia internazionale (sfruttati del terzo e quarto mondo e sfruttatori emergenti, finanza globale, limiti ecologici e climatici)  ed i rischi di guerra
-          una strategia sociale e politica per cambiare gli indirizzi di governo a livello europeo (se non si vuole proporre come Grillo e Salvini e di fatto anche Berlusconi di andarsene o farsi cacciare dall’Europa)
-          una tattica politica per far passare almeno qualcuna delle 10 proposte in questo parlamento, o anche nel prossimo, spiegando con quali elezioni e quali liste ci si vuole arrivare.

Quindi, direi, per ora “oppure no”.

Non c’è una vera alternativa alla linea e alla retorica renziana, a mio avviso, ma solo una sorta di “massimalismo minimalista”: obiettivi non estremisti, ma oggi difficilmente raggiungibili, senza una parola sul percorso per raggiungerli, come se bastasse enunciarli.

MACELLERIA PROVINCIALE

Nei chiaroscuri della Legge di Stabilità, mi sembra di capire che i tagli alle fu-Provincie si configurino come punto molto oscuro, che forse verrà rischiarato con gli ultimi giri di emendamenti (occorre ringraziare il bi-cameralismo?).
Le province sono state private dalla scorsa estate, con la riforma DelRio, di autonoma rappresentanza politica (dai consigli provinciali ad una assemblea di amministratori comunali) e tendenzialmente di una parte delle funzioni, che dovrebbero essere distribuite (a cura delle singole regioni) tra i comuni e le regioni stesse.
Per attuare tali trasferimenti, la legge di stabilità, da un lato taglia drasticamente le risorse finanziarie a disposizione delle medesime provincie, dall’altro impone un taglio omogeneo del 50% delle “piante organiche” (solo del 25%  per quelle promosse ad “aree metropolitane”).
Il personale in esubero potrebbe essere riassorbito da regioni e comuni, ma solo se e quando le regioni definiscono le nuove competenze, e soprattutto se e quando regioni e comuni troveranno od otterranno le necessarie risorse (oppure per coprire eventuali vuoti di organico pregressi, ma già coperti in bilancio).
Mi chiedo che serietà ci sia in tutto questo, non solo riguardo alla sorte di quota parte dei lavoratori dipendenti, avviati ad un percorso di cassa-integrazione/mobilità/licenziamento, frustrante ed umiliante per loro, ma non privo comunque di costi (improduttivi) per le finanze pubbliche, ma anche per le funzioni dichiarate a priori “mediamente inutili” per il 50%, in percentuale costante tra tutte le provincie italiane e tra tutte le provincie di ogni singola regione. 
Poi magari scopriremo che non c’è più nessuno a monitorare le frane ad Ascoli Piceno, oppure a conteggiare i turisti a Como (e che avanzi comunque qualcuno di troppo invece altrove, a Sondrio, o probabilmente ad Avellino): così, a pois.

Più che “spending review” mi sembra pura macelleria istituzionale (e sociale).

martedì 2 dicembre 2014

PERCHE’ LE NAZIONI FALLISCONO, SECONDO ACEMOGLU E ROBINSON

Nel lontano 1970 partecipavo ad una “Commissione Riforme” del movimento degli studenti di architettura di Milano, il cui assunto era - grosso modo - quanto anche il capitalismo “avanzato” fosse piuttosto cattivo, e non ci fosse da fidarsi delle sue “riforme”;  rammento che ai margini di quella ricerca mi rimaneva il dubbio (eretico) su perché comunque in Scandinavia si vivesse (socialmente parlando) meglio che in Italia, ma non ebbi molto tempo per coltivarlo, perché forti dosi di repressione erano alle porte e con la crisi (non solo “petrolifera”) del 72-73 il riformismo in Italia comunque non era più di moda.

Alle mie domande di allora pensavo che potesse rispondere il ponderoso e celebrato saggio degli accademici americani Daron Acemoglu (di origine turca) e James A. Robinson, edito negli USA nel 2012 ed in Italia nel 2014 (“PERCHE’ LE NAZIONI FALLISCONO - Alle origini di potenza, prosperità, e povertà” – Il Saggiatore - cartaceo € 22 - eBook €10.99), ma al termine delle oltre 400 pagine mi dichiaro abbastanza deluso.
               
Il testo è di facile lettura, in quanto povero di dati statistici e ricco invece di racconti ed aneddoti, con numerose incursioni non-cronologiche su oltre 10.000 anni di storia in tutti i continenti, (quasi in antinomia speculare con “Debito: i primi 5.000 anni” di Graeber – vedi mio post - e per me un utile ripasso per le vicende dell’emisfero nord, e informazioni prima quasi sconosciute sull’emisfero sud), ma risulta anche ripetitivo, assertivo e talora apodittico.

                La tesi degli autori (che ripeto qui anche se è già stato ben riassunta in altre recensioni: segnalo in particolare quella de “IL POST”) è che il successo economico (ed il benessere) delle nazioni non dipendono da clima&risorse, né da fattori culturali (inclusa la presunta “ignoranza dei ceti dirigenti”), bensì dalla qualità delle istituzioni politico-amministrative:
-         le istituzioni “inclusive” (ovvero pluralistiche), attraverso la certezza del diritto (in primis di proprietà privata) ed il possibile ricambio delle élites, consentono l’apertura al nuovo e il benefico processo della “distruzione creatrice” e perciò l0 sviluppo (paradigmatica l’evoluzione inglese, prima e dopo le rivoluzioni del 17° secolo);  occorre però la premessa di una discreta centralizzazione dello stato;
-         le Istituzioni “estrattive” mirano solo ad accumulare e perpetuare i privilegi delle élites, paventando le innovazioni e bloccando gli accessi a nuovi metodi di valorizzazione delle risorse (esemplari le chiusure contro l’introduzione di fabbriche e ferrovie da parte degli imperi austro-ungarico, russo ed ottomano nel primo Ottocento); con il rischio che nelle fasi di crisi succedano nuove élites altrettanto “estrattive” oppure che il territorio si frammenti in spinte centrifughe, per effetto della ricerca diffusa di poteri esclusivi (così sarebbe terminato l’impero dei Maya).
-          
Le prove addotte da Acemoglu e Robinson sono ampie (a partire dagli insediamenti “natufiani” che nel medio oriente del 9500 a.C. pervennero all’agricoltura previa formazione di villaggi stanziali, e non viceversa), ma non sempre convincenti; ad esempio:
-         il paese di Nogales, diviso tra USA e Messico, con crescenti divergenze nei livelli di prosperità: però dallo stesso testo risulta che ambedue le comunità sono state fondate dopo la definizione del confine (e non dividendo in 2 un preesistente insediamento), per cui diverse a mio avviso sono state anche dall’origine
-         la colonizzazione del Sud e del Nord America, la prima fondata sullo sfruttamento schiavistico degli indigeni sottomessi e sulla depredazione delle risorse naturali, la seconda invece necessariamente basata sul lavoro degli stessi coloni bianchi: Acemoglu e Robinson però trascurano il particolare del genocidio perpetrato a danno dei più riottosi indigeni “pellerossa” e isolano da questo ragionamento le loro pur ampie dissertazioni sulla deportazione degli schiavi africani
-         il relativo successo del (solo) Botswana, che - dopo l’indipendenza dal colonialismo britannico e grazie ad una qualche persistenza di preesistenti strutture tribali di tipo “inclusivo” – avrebbe raggiunto un PIL pro capite al livello di Lettonia o Ungheria, cioè assai alto se raffrontato con il disastro di gran parte del restante continente africano, ma non con il benessere di popoli ugualmente remoti, ma non assoggettati al colonialismo europeo, come ad esempio il Giappone.

Più interessante che non la tesi centrale del libro, è – a mio avviso – il metodo di indagine sugli sviluppi storici (benché minato dalla separazione degli argomenti e dalla mancata concatenazione di fondamentali fattori a livello internazionale), che cerca di evitare ogni determinismo nella trasformazione delle istituzioni, e di assimilare invece le acquisizioni tipiche della genetica e della linguistica, e cioè la (piuttosto casuale) accelerazione delle divergenze in presenza di particolari fasi critiche (ad esempio la “Peste Nera” sul finire del Medioevo in Europa, che – riducendo drasticamente la forza-lavoro disponibile - porta in Occidente alla estinzione della servitù della gleba ed invece in Oriente ad una  sua recrudescenza).
                Ma tale raffinatezza di analisi (che contrasta con un certa grossolanità di approccio – a mio avviso – sull’esperienza del comunismo sovietico e mostra la corda nella difficoltà di interpretare l’odierno regime cinese, che secondo gli Autori non potrà svilupparsi a lungo senza profonde riforme) non può superare il peso
-         delle enormi carenze di lettura della storia complessiva del mondo da parte degli Autori, e cioè la correlazione necessaria tra il benessere degli uni (ad esempio gli anglosassoni, inclusivi a casa loro) ed il malessere degli altri (direttamente colonizzati o sfruttati per inique sperequazioni commerciali di carattere imperialistico, ad esempio dagli stessi anglosassoni, estrattivi  casa d’altri, a partire dalla vicina Irlanda) 
-         dei giudizi aprioristici e comunque non-dimostrati quali quello sulla ricchezza materiale come unica misura del benessere, oppure la necessità di proprietà privata ed incentivi economici per ogni sviluppo del progresso umano (che dovrebbe quindi essere  assente anche nei “settori pubblici” delle società avanzate, mentre mi pare che non manchi in università ospedali e centri di ricerca, anche poveri di progressioni economiche, come spesso è in Europa) od ancora sulla “distruzione creatrice”, che sempre agirebbe positivamente (mentre qualche volta distrugge valori non riproducibili, sociali oppure ambientali).    
-          
Non mi convince inoltre l’eccessiva autonomizzazione degli aspetti istituzionali dal retroterra socio-economico (vedi un certo Marx) e dagli stessi fattori culturali (ad esempio l’influenza dei movimenti di riforma protestante nelle divergenze istituzionali e di sviluppo tra le diverse nazioni europee – vedi un certo Weber).

                Appendice: tra le numerose recensioni, alcune encomiastiche, altre detrattive, e molte variamente dialettiche, mi hanno colpito quelle su Repubblica nell’agosto 2012, a cura di Simonetta Fiori l’una e di Francesco Domenico Moccia l’altra, che mi sono sembrate alquanto distratte:
-         la prima lamenta la mancanza di protagonisti italiani nelle storie (a parte Giulio Cesare) e di autori italiani nella bibliografia, mentre a me risulta che sia trattata ampliamente la Repubblica di Venezia e che tra gli autori (seppure di testi in inglese) figurino almeno Tabellini e Guiso-Sapienza-Zingales

-         il secondo trova il testo limitato alla fortuna delle nazioni intere e carente sulle divergenze di sviluppo interne, mentre a me pare ben evidenziato il divario tra stati del sud e del nord degli U.S.A., prima e dopo la fine dello schiavismo, nonché qualche cenno ai divari interni, ad esempio, della Sierra Leone, del Sud Africa, dell’Australia.

PUBBLICO IMPIEGO

C’è un argomento che mi pare non venga sollevato dai sindacati, in favore della vertenza del pubblico impiego, forse per pudore di tipo confederale: il privilegio relativo degli scatti di anzianità, che permangono in varie forme per gli insegnanti, come anche per  magistrati e forze dell’ordine; ed agli insegnanti precari (o meglio a gran parte di essi) la legge di stabilità ed il progetto “la buona scuola” promettono l’immissione in ruolo con la “ricostruzione della carriera (cioè il riconoscimento dell’anzianità pregressa), e – per il futuro- scatti “meritocratici”, ma comunque garantiti a 2/3 degli insegnanti.

Invece i dipendenti ordinari del settore pubblico (ministeri, INPS, enti locali ed enti vari), esaurite probabilmente le facoltà di “progressioni orizzontali” previste dai vecchi contratti, ed esaurite quasi certamente le risorse disponibili, sono di fatto privi di ogni adeguamento automatico in assenza dei rinnovi contrattuali.
(Per cui paradossalmente, la mia pensione del 2007, malgrado qualche stop di Monti e l’incidenza delle addizionali IRPEF comunali e regionali, è riuscita almeno nominalmente ad aumentare, più degli stipendi dei miei colleghi rimasti al lavoro in Comune, dove un laureato “semplice” credo difficilmente raggiunga i 1500 € mensili netti).

E’ vero che il governo Renzi ha assegnato gli 80 Euro ai lavoratori dipendenti, giusto fino alla fascia dei 1500 € circa; però a tutti, e nei settori privati, pur colpiti da riduzioni di organico e licenziamenti, almeno non sono congelati i contratti da oltre 8 anni.

Il blocco dei contratti è una ingiustizia che i pubblici dipendenti devono subire perché i loro posti di lavoro continuano a essere mediamente più sicuri di quelli privati?
Oppure perché nelle loro file si annidano i “fannulloni”, e comunque i lavoratori pubblici devono pagare per la conclamata (e talora veritiera) inefficienza della pubblica amministrazione?
(Una bella gara tra ingiustizie..).
Oppure l’Italia potrà tornare un paese normale (come anche pare lo “spread” sui titoli del debito pubblico si vada normalizzando) in cui i contratti collettivi di lavoro, quando scadono, vengono rinnovati?

E, se c’è crisi e scarsità di risorse, i sacrifici vengono distribuiti nel modo più equo possibile (cioè un po’ meno “casual” di così)? 

lunedì 17 novembre 2014

ITALICUM E SVILUPPI

Le ipotesi di modifica della nuova legge elettorale rischiano di essere valutate solo sul piano tattico (cosa conviene a chi, ora) oppure di  essere trascurate perché confinate nel “tecnicismo” (soglie, premi, collegi, ecc.).
Ritengo invece che implichino grandi questioni di principio, che dovrebbero interessare tutti i cittadini (non solo le poche migliaia di “Cittadini” auto-proclamati tali dal blog di Grillo), e con attenzione rivolta al futuro, perché una buona legge dovrebbe durare qualche legislatura (e anche se non è buona rischia di perdurare), e quindi funzionare anche in ipotetiche condizioni assai diverse da quelle attuali.
Di questo potrà occuparsi in seguito forse in futuro la stessa Corte Costituzionale, ma comunque è meglio che se ne preoccupi fin da ora la “pubblica opinione”, e comunque anch’io, nel mio piccolo, sono piuttosto preoccupato.

SOGLIA PREMIALE: il testo votato dalla Camera nella scorsa primavera fa scattare il secondo turno delle elezioni politiche (per la sola Camera dei Deputati, confidando nel “demansionamento” del Senato) alla soglia del 37%: la lista o coalizione che supera il 37% dei voti validi conquista più di metà dei seggi, assicurando una tendenziale stabilità di Governo; sotto tale soglia si va ad un secondo turno di ballottaggio.
Le proposte di modifica avanzate ora da Renzi e dal “vertice di maggioranza” sono:
- di elevare tale soglia al 40% (largamente condivisa)
- di applicare il premio non più alle coalizione bensì alle liste (il che evidentemente non può piacere al centro-destra né in generale ai partiti minori ed ai potenziali “satelliti”).
Personalmente (anche se non è all’ordine del giorno) mi piacerebbe innalzare al soglia premiale anche di più (45%?), generalizzando in pratica il ballottaggio (cioè escludendolo quando di fatto inutile).
La questione lista/coalizione mi sembra in parte nominale, perché se il premio andrà alla lista probabilmente fioriranno anche listoni eterogenei, con qualche minor fascino elettorale delle “articolate coalizioni”, ma con analoghi rischi di successive divergenze e frantumazioni.
Vorrei però richiamare l’attenzione su un problema che mi sembra trascurato dagli osservatori, al momento rassicurati dalla presenza di grossi schieramenti: se il premio va  alla lista e se nel contempo si ammorbidiscono le soglie minime di sbarramento (vedi sotto) diverrebbe possibile che al primo turno si affermino una pluralità di liste anche poco consistenti (esempio attorno al 10% dei consensi), il che renderebbe assai poco serio un ballottaggio che attribuisce il 55%  dei seggi.
La soluzione, assai complessa, potrebbe consistere in una soglia  minima da raggiungere per le prime 2 liste (sopra il 20%), facendo scattare altrimenti un obbligo o facoltà di coalizione, tra primo e secondo turno, per superare tale soglia minima.
Da valutare in tali casi anche l’ipotesi di un ballottaggio tra i primi 3 schieramenti, anziché tra i primi 2 (il premio del 55% dei seggi scatterebbe già sopra un terzo dei voti, ma dalla contesa finale non sarebbe esclusa la maggior parte dei contendenti, come avverrebbe invece con uno spareggio tra due gruppi al 21%, o ancor peggio se sotto il 20%).

SOGLIA DI INGRESSO O DI SBARRAMENTO: il testo votato dalla Camera introduce  2 diverse soglie minime, dell’8% per liste singole e del 4,5% per ogni singola lista coalizzata (con il 12% almeno per la coalizione), con evidente effetto dissuasivo verso i partiti minori e soprattutto contro l’ingresso di nuovi soggetti (che dovrebbero avere a priori, cioè nei sondaggi, una forza di attrazione ben superiore all’8%, per assicurare agli elettori di non disperdere i loro voti).
Le proposte di modifica della maggioranza governativa è di abbassare la soglia al 3%, unificandola (perché non c’è più spinta alle coalizioni forzose); ciò non sembra convenire a Forza Italia.
A mio avviso l’abbassamento ed unificazione delle soglie risponde ad evidenti ragioni di democrazia (non solo per la maggior rappresentatività plurale nel Parlamento, ma soprattutto per la maggio possibilità di nuovi ingressi e quindi di ricambio dei gruppi dirigenti), essendo la potenziale governabilità affidata al meccanismo del premio di maggioranza (con o senza ballottaggio).
Dalla tendenziale maggior frammentazione dei gruppi parlamentari nascono però le preoccupazioni che ho espresso sopra circa  le soglie di ammissione al secondo turno.

COLLEGI E PREFERENZE: l’Italicum di primavera prevede le liste bloccate, come nel vigente Porcellum; la nuova proposta invece reintroduce in parte le preferenze da parte degli elettori, restando bloccati i capilista, distribuiti in 100 collegi (dunque abbastanza piccoli, con una media di 6,3 seggi per ogni collegio).
La dimensione limitata dei collegi mi sembra positiva, perché riduce i difetti denunciati nei decenni passati circa le preferenze, aumentando le possibilità di conoscenza diretta dei candidati (ma anche i fenomeni di clientelarismo locale) e limitando i costi di propaganda.
I capilista bloccati sarebbero positivi se tra di loro valesse la sfida diretta per esclusione (cioè ognuno di essi si può candidare in un solo collegio, e viene eletto solo se vince in quel collegio); ma l’accordo della Maggioranza Governativa prevede invece le candidature plurime (fino a 10 collegi), e l’assegnazione proporzionale dei seggi, con recupero quindi dei “perdenti migliori” (se le loro liste raggiungono le necessarie percentuali a scala nazionale), il che mi sembra costituisca una precisa volontà di autoconservazione del ceto politico (capilista scelti dall’alto) ed una diminuzione del potere di scelta e di interdizione da parte del corpo elettorale.
E così, più diminuisce la dimensione dei collegi, e si “umanizzano” le preferenze, più cresce il numero dei capilista cooptati (e diminuisce il numero dei deputati da scegliere con le preferenze.

Resto perciò assai perplesso in materia.

martedì 4 novembre 2014

IPER-DEMOCRAZIA SECONDO STEFANO RODOTA'

Ho letto il breve saggio di Stefano Rodotà “Iperdemocrazia – come cambiala sovranità democratica con il web””, pag. 33, e-book gratuito dell’editore Laterza, e vi ho trovato considerazioni sagge e condivisibili, soprattutto nella prima parte, molto critica verso le scorciatoie tecnologiche, che Rodotà analizza nel loro ruolo sociale, comparando Internet all’uso della TV e dei sondaggi, e mettendo in guardia da ogni fenomeno plebiscitario, in cui i cittadini, singolarmente isolati (ed in un contesto storico di logoramento dei vecchi tessuti sociali, a partire dalle fabbriche), non possono partecipare né alla formulazione delle domande né al controllo sulle risposte.
Rodotà mette in evidenza
-       come alla frantumazione sociale del cittadino-sovrano corrisponda una rincorsa settoriale da parte dei politici, con i metodi del marketing e della pubblicità, che mira ad una raccolta spregiudicata dei vari segmenti del consenso, mentre viene meno ogni coscienza dell’interesse generale,
-       che l’affiancamento dei continui sondaggi alle normali cadenze elettorali finisce con il far prevalere questi su quelle, sia per l’influenza che i sondaggi stessi esercitano sull’elettorato, sia per l’artificiosa suddivisione del corpo elettorale in “sommatoria di campioni statistici”, e come in tal modo gli interessi e le emozioni a breve termine sormontino ogni capacità di programmazione e decisione strategica sui tempi lunghi (analogamente a quanto accade nel mondo finanziario e spesso anche aziendale);
(parte di questi temi sono ben presenti in “Finale di partito” di Marco revelli, da me recensito, non presente però nella bibliografia del testo di Rodotà).
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Nella seconda parte invece Rodotà illustra alcuni casi, specifici e circoscritti ad ambiti locali ed a singoli temi (in Olanda e negli USA), di positiva evoluzione verso forme di democrazia più diretta e partecipata, anche attraverso l’uso, meditato e controllato, di moderni strumenti di comunicazione informatica, ed analizza le potenzialità di Internet soprattutto riguardo alla trasparenza della pubblica amministrazione ed all’accesso alle informazioni (premessa per una effettiva partecipazione popolare alle decisioni), segnalando però le distorsioni che possono derivare
-       dalle resistenze degli apparati burocratici e dei centri di potere politici ed extra-politico
-       dalla esclusione degli strati sociali non alfabetizzati digitalmente
-       dii rischi comunque incombenti di accesso diseguale alle informazioni e quindi di rafforzamento di alcune èlites anziché effettiva ridistribuzione del potere.
Con cautela comunque Rodotà apre alle speranze di una “ricomposizione del sovrano”, non derivante  però automaticamente dall’adozione delle nuove tecnologie (senza abbarbicarsi all’attuale democrazia rappresentativa, di cui sono evidenti le distorsioni, come invece fa ad esempio  sempre sotto il titolo “Iper-democrazia”, Luca Ricolfi in un intervento da me già negativamente commentato).

Mi sembra che manchi una terza parte, dove Rodotà esprima qualche giudizio – così come fa ad esempio sulla meteora Ross Perot (elezioni presidenziali USA 1992 e 1996)  - sul peculiare e più recente fenomeno italiano del MoVimento 5 Stelle (di consistenza rilevante  anche a scala internazionale), che ha rapidamente esaltato ed anche dissipato le potenzialità di una comunicazione ed organizzazione di massa “in rete”, bruciando sul cammino anche una candidatura, forse improvvidamente accettata, dello stesso prof. Rodotà  alla Presidenza della Repubblica..   


ROTTAMA ITALIA

Segnalato da Salviamo-Il-Paesaggio, ho scaricato e letto il libro istantaneo di diversi ed autorevoli autori “Rottama Italia - perchè il decreto Sblocca-Italia è una minaccia per il nostro futuro"  (e-book a 2 €, edito da Altraeconomia, pagg.. 86), per approfondire i guasti minacciati dal Decreto Legge “Sblocca Italia”, e che si stanno pur troppo in gran parte confermando a causa della forzosa conversione in legge del decreto stesso, con poche modifiche, tramite l’abituale voto di fiducia.

Il volume tradisce un poco l’impostazione improvvisata e risulta costituito da una miscellanea di interventi non omogenei, né sotto il profilo della “scala” di approccio al testo legislativo (che alcuni autori colgono come pretesto per ribadire proprie teorie generali), né sotto quello dell’ispirazione politica, perché alcuni partono da una opposizione pregiudiziale a questo Governo ed altri più laicamente dalla realtà del Decreto: realtà che comunque emerge nell’insieme come un clamoroso marcia indietro per molti valori della sinistra (seppure già stemperati dai precedenti governi di centro-sinistra che hanno interpuntato il ventennio berlusconiano).
Per inciso, è sfuggita agli autori la gravità dell’art. 16, dove sottopone a oneri di urbanizzazione anche gli interventi di manutenzione straordinaria, finora gratuiti (invece di penalizzare le nuove costruzioni su suolo libero).

Dopo una introduzione di Tomaso Montanari ed una introduzione sull’aspetto comunicativo del giornalista di Altraeconomia Pietro Reitano, Giovanni Losavio (ex magistrato) interviene con puntualità a verificare se esistano i presupposti di omogeneità e di urgenza per la promulgazione del Decreto, che prosegue una pratica di dubbia costituzionalità perdurante da alcuni decenni (da quando sono emersi i concetti di “congiuntura avversa” e di crisi economica); tema ripreso più avanti, con diversa angolazione dal parlamentare PD ed ex-ministro della cultura Massimo Bray, che conviene con il Governo sulla necessita di aggiornare le procedure, ma in un insieme organico e non caso per caso con un provvedimento di urgenza abborracciato e privo della dovuta relazione di impatto della nuova normativa.

L’ex-vice presidente della Corte Costituzionale magistrato Paolo Maddalena contesta l’identificazione tra “ripresa delle attività produttive” e bene pubblico, a scapito di altri veri “beni pubblici”, quali la tutela del territorio e del paesaggio, ed estende le sue valutazioni esponendo – oltre ad una critica radicale al concetto di cartolarizzazione dei debiti - la sua tesi di interpretazione avanzata sull’art. 42 della Costituzione, sulla funzione sociale della proprietà, quando privata, fino a prevederne l’esproprio senza indennizzo quando inutilizzata: ipotesi molto interessante, ma che a mio avviso potrebbe camminare nel diritto solo se procedesse con forza nella società.


Più ideologico l’urbanista Edoardo Salzano, che tende a ricostruire una continuità ideologica, per l’appunto, da Craxi a Berlusconi fino a Renzi in materia di privatizzazioni, grandi opere  e de-regulation, con l’occhio attento più al disegno di legge Lupi sul governo del territorio che non alle concrete contingenze del decreto Sblocca-Italia.

Paolo Berdini, urbanista, analizza i guasti di alcune deroghe alle norme urbanistiche e soprattutto la tendenziale degenerazione del “Financing project” per le grandi opere (tipo Brebemi o quadrangolo Marche-Umbria) dove a partire dalla de-fiscalizzazione e per finire con il subentro dello Stato a garanzia, è concreto il rischio di trasferire a carico del bilancio pubblico interventi vantati all’origine come prive di oneri per lo stato.
(Analogo lo specifico commento di Luca Martinelli sul progetto di autostrada Orte-Mestre).

Vezio De Lucia, ancora urbanista, ripercorre la complessa vicenda del recupero dell’area ex-industriale di Bagnoli e relative (mancate) bonifiche e denuncia il tentativo di ripartire da zero, accentrando le decisioni in capo a Commissari governativi e scavalcando il Comune e la vigente specifica pianificazione locale, aventi prevalenti contenuti di interesse pubblico.

Salvatore Settis, archeologo, riepilogando i tentativi finora falliti di estendere il principio del silenzio-assenso alle procedure relative ai beni culturali ed l paesaggio, evidenzia la forzatura prevista dallo Sblocca-Italia per alcune grandi opere, che trasferiscono di fatto le decisioni finali dalle Sovrintendenze ad altri organi governativi o loro emanazioni imprenditoriali.

Tomaso Montanari, storico dell’arte, affronta l’accelerazione e generalizzazione delle procedure di vendita o ”valorizzazione” (con cessione del solo diritto di superficie temporaneo) dei beni demaniali, con il coinvolgimento dei Comuni, e rivendica per contro una sacralità degli stessi immobili in quanto “beni comuni”: non mi convince, perché non è detto che tutte le ex-caserme, ad esempio, possano trovare immediata e valida utilità pubblica, in relazione ai bisogni, alle risorse e dalla capacità di intervento e di gestione degli enti locali; se non sempre “privato è bello”, anche il “pubblico a-priori” rischia di generare abbandono e degrado.
Anna Donati, ambientalista, esamina la politica dei trasporti nello Sblocca-Italia, avara verso il trasporto pubblico locale e prodiga verso alcune grandi opere, in modo diretto per la TAV e in modo indiretto per le autostrade, attraverso l’ipotesi di ampi rinnovi, senza gara, delle concessioni autostradali in scadenza, a fronte di vari progetti di potenziamento ed estensione della rete.

Maria Pia Guermandi, archeologa, illustra lo stato comatoso dell’archeologia in Italia (e dentro di esso il precariato povero dei giovani archeologi), la mancata ratifica italiana della Convenzione di Malta del 1992, che prevede il coinvolgimento preventivo dell’archeologia nella progettazione delle principali opere, al fine di monitorare e prevenire i conflitti tra lavori pubblici e tutela del patrimonio archeologico, mentre il decreto Sblocca Italia, a coronamento di una prassi incalzante in tal senso, asserisce di fatto a priori la compatibilità archeologica di qualunque progetto, costringendo le Sovrintendenza a organizzare in fretta e furia gli scavi “in emergenza” per rimuovere i reperti rinvenuti.

Pietro Donmarco, giornalista, espone la resa del Governo alle pretese delle compagine petrolifere per avere mani libere nelle prospezioni e trivellazioni per la ricerca ed estrazione di gas e petrolio, quali che siano i vincoli ambientali, anche se le quantità in gioco non saranno risolutive per il fabbisogno nazionale e comunque indirizzate ad aumentare enon a diminuire le emissioni di CO2).

Domenico Finiguerra, già Sindaco di Cassinetta di Lugagnano, segnala le forzature procedurali in favore degli inceneritori, sia ai fini della costruzione di nuovi impianti, sia per il mantenimento dell’utilizzo – ma in favore di altri territori - di alcuni impianti in via di  superamento grazie al progresso della raccolta differenziata in numerose province.

Anna Maria Bianchi, documentarista, evidenzia il progressivo slittamento delle procedure contro l’autonomia delle amministrazioni preposte alla tutela dei vincoli, in favore dei privati che “auto-certificano” e contro la effettiva partecipazione popolare nelle decisioni sulle opere pubbliche, costretta nei tempi e surrogata da caricature di nuove forme di partecipazione, limitate alla manutenzione delle aree verdi con l’incentivo di sgravi fiscali.

Antonello Caporale, giornalista, se la prende in generale con la mania delle grandi opere urgenti, con la consueta scia di extra-costi e corruzione.

In conclusione Carlo Petrini, presidente di Slow Food, riepiloga le vicende del disegno di legge contro il consumo di suolo, proposto dal ministro Catania durante il governo Monti, in contrasto con il clima emergenziale di quella fase ed invece in sintonia con la lunga marcia culturale promossa dei movimenti per la valorizzazione della terra e del cibo, disegno di legge ancor vivo con i governi Letta e  Renzi, rispetto al quale lo Sblocca-Italia ha rappresentato una brusca svolta, rilanciando cemento, autostrade e trivellazioni, e troncando le speranze riposte dai movimenti e dallo stesso Petrini. che conclude con un accorato e motivato appello alla ragione e alla coerenza per il nuovo corso renziano (verso il quale si dichiara non pregiudizialmente ostile), in nome della bellezza del paesaggio italiano e della peculiare creatività delle attività più legate al territorio, negate e frustrate dalle scelte dello Sblocca-Italia,.

QUALE STABILITA?

Nei giorni in cui lo stesso Renzi va a cercare l’applauso degli industriali bresciani, scegliendo la sede provocatoria di un imprenditore notoriamente “falco” (e che ha messo in ferie forzate i dipendenti per garantire il silenzioso successo all’iniziativa) e attribuendo ad artificiose contrapposizioni politiche il dissenso che suscita tra i lavoratori (e tra gli elettori tradizionalmente di sinistra) il suo assalto alla giusta causa per i licenziamenti individuali, verrebbe facile un commento globalmente negativo sul suo governo.

Ritengo più utile invece  sforzarmi di valutare nell’insieme la Legge di Stabilità proposta dal Governo, pur senza l’ambizione di esprimere un giudizio definitivo, né  tanto meno di predirne gli effetti (il che sarebbe materia degli economisti, ma ormai nemmeno loro ci provano), limitandomi ad avanzare alcune valutazioni sui nodi salienti:

-          DEFICIT: con un po’ di pantomima nella trattativa con le Commissioni Europee, uscente ed entrante, il Governo colloca il deficit per il 2015 sotto il 3% e rinvia nel tempo il pareggio strutturale, che ai tempi di Tremonti era stato sventatamente sottoscritto a breve scadenza: uno slalom che lascia all’Italia un po’ di respiro rispetto alla linea dura dell’austerità (comunque a nostre spese, perché il debito continuerà ad aumentare, con i derivanti interessi, sia pure mitigati per ora da un contenuto “spread”), ma non mette in gioco le scelte strategiche dell’intera Europa e quindi non può far sperare in una uscita dalla crisi, nemmeno tattica in “stile Obama”;

-          TAGLI: la pretesa di scientificità della “spending review”, dal compianto Padoa Schioppa al poco rimpianto Cottarelli, pare aver ceduto il posto ad una gestione tutta “politica”, dove dai “tagli lineari” (spesso poco applicabili ed applicati) di Tremonti si passa ad una “dettatura dei compiti a casa”, assegnati con decisionismo da Renzi (“lì o là c’è del grasso che cola”) e contrattati debolmente da Governatori e Sindaci ormai in prevalenza renziani; tutti concordano sulla eliminazioni degli sprechi e nessuno vuole il peggioramento dei servizi (e tanto meno delle proprie peculiari posizioni di relativo vantaggio); occorre però a mio avviso rammentare che a breve termine i tagli, anche degli sprechi, hanno un effetto depressivo sull’insieme della domanda interna, e solo a lungo termine incrementano l’efficienza del sistema;

-          RIDUZIONI FISCALI: la conferma (e parziale estensione) dello sconto fiscale degli 80 € mensili sui salari medio-bassi ed con il “colpo di teatro” della eliminazione della componente lavoro dell’IRAP (affiancata da una parziale de-fiscalizzazione degli oneri sociali per nuove assunzioni), rappresentano il cuore della manovra di Renzi, invero piuttosto audace, ma non si sa ancora quanto efficace (temo anzi che nessuno lo sappia: già dicono “poco” i gufi, pur istituzionali, dell’ISTAT); la complessiva riduzione del “cuneo fiscale” sui salari, a breve termine dovrebbe favorire (ma non determinare!)  un maggior impiego di lavoro, mentre a lungo termine potrebbe anche scoraggiare una ricerca di maggior produttività del lavoro stesso (salvo aumento dei salari reali, oggi improbabile);

-          STANZIAMENTI: senza rincorrere i mille rivoli in cui si diparte ogni Legge Finanziaria, già nella partenza governativa e poi peggio dopo le mediazioni parlamentari (spesso senza alcun disegno programmatico complessivo), mi pare che i segnali forti della manovra siano:
o   Scuola, con assunzione dei 150.000 precari (che ho già commentato alcuni giorni addietro),
o   Famiglia, con il “bonus bebé” di 1000 € annui, assurdamente esteso a redditi medio alti (90.000 € annui) anziché concentrare le risorse sulle fasce meno ricche e rafforzare gli assegni familiari ben oltre la prima infanzia,
o   Ammortizzatori sociali, con risorse troppo scarse – finora – per rendere credibile un sistema organico di sostegno al reddito oltre le tradizionali forme di Cassa Integrazione e Mobilità.

Se completiamo questo scenario con il Decreto SBLOCCA ITALIA (che conferma od esaspera molte nefandezze ambientali purché il PIL riprenda: trivellazioni, autostrade, inceneritori, ecc. – vedi in altro post la recensione di “Rottama Italia”), la perdurante mancanza di una politica industriale e la constatazione che delle molte riforme messe in cantiere dal governo Renzi è giunta in porto finora la sola (e probabilmente errata) soppressione dei Consigli Provinciali, ritengo che – ben che vada – per i restanti potenziali 900 giorni del 1° governo Renzi si potrà verificare forse un qualche rilancio del vecchio modello di sviluppo, ma nessuna seria correzione, né riguardo al ruolo dell’Italia nel mercato internazionale, né riguardo alle storiche storture (evasione fiscale e lavoro nero, corruzione, degrado ambientale).

Per inquadrare meglio la questione, aggiungo qualche cenno ai commenti e/o alle alternative dei principali soggetti in campo:

-          CONFINDUSTRIA: dichiara di veder realizzati molti suoi sogni (licenziamenti e IRAP); si dimentica di spiegare perché nei venti anni precedenti gli industriali si sono spellati le mani ad applaudire Berlusconi che – quando non era intento a curare gli affari suoi con leggi ad personam –ha tentato di ridurre le tasse in direzioni che si sono dimostrate palesemente inutili, oltre che inique: investimenti fissi “a prescindere”, IRPEF spalmata su tutte le fasce di reddito, ICI/IMU anche per i ricchi (anche Alfano esulta ed esalta le nuove riduzioni fiscali come “scelte di destra”: per fortuna almeno abbiamo cambiato destra…);

-          CGIL e FIOM: oltre alla sacrosanta battaglia contro i licenziamenti-senza-giusta-causa, criticano molti tagli alla spesa e giudicano fin d’ora inefficace lo sgravio dell’IRAP e di parte dei contributi ai fini delle nuove assunzioni, “perché così non si crea lavoro”. ma si alleggeriscono solo i costi aziendali; ciò è probabile, ma le alternative avanzate (in parte anche da CISL e UIL) e che consistono in un mix “roosveltiano” di patrimoniale e improvvisa efficienza del fisco, investimenti pubblici diretti ed indiretti, stabilizzazione di tutti i precari (ma senza l’audacia di una riduzione degli orari di lavoro) mi sembra oggi poco credibili e prive di alleanze sociali e politiche;

-          all’estrema sinistra Marco Revelli, redigendo un documento per trasformare la lista Tsipras in “soggetto politico”, muovendo da una pregiudiziale anti-Renzi ed anti PD-mutato-geneticamente,
-          E giudicando le politiche di Renzi come un mero inganno mediatico (senza analizzarne le novità, riguardo ad esempio ai suddetti sgravi fiscali) ri-propone di restare nell’Euro ma “consolidando” il debito, cioè non restituirlo in tutto o in parte, e di fondare su questa scelta - invero di difficile gestione in un solo paese – una uscita dalla crisi, che comunque mi sembra assomigli ad un rilancio del vigente modello di produzione e non ad una versione eco-compatibile e mondialista dell’austerità: molto rumore rivoluzionario per nulla?;

-          RENZI STESSO, oltre a proclamare che il rancio è ottimo ed eccellente, e gli altri sono gufi, sostiene che la sua manovra è di sinistra (licenziamenti-senza-giusta-causa compresi) perché è di sinistra innovare e creare posti di lavoro: su tale  sinistrismo ovviamente ho molti dubbi, ma non credo che il Renzismo possa vivere di sole promesse  (diversamente dal berlusconismo, che aveva uno zoccolo duro di elettori fideisti, anti-comunisti ed anche razzisti); se non ci sarà una inversione di tendenza sul fronte dell’occupazione, il consenso non potrà che incrinarsi, e non solo lungo la linea di frattura che lui stesso sta delineando contro la sinistra “sindacale”, con la pericolosa presunzione di tenersi i voti di sinistra mentre smantella le residue tutele dei lavoratori (ma nessuno tra i Renziani della 1^e della 2^ ora, riesce ad avvertirlo che così rischia di andare a sbattere?).
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lunedì 27 ottobre 2014

VERSO UNA BUONA SCUOLA?

Voglia di parlar bene del Governo Renzi non ne viene molta, dal “Jobs act” allo “Sblocca Italia”, e dopo la Leopolda-5, ma – per coerenza con il mio assunto relativista ed anti-pregiudiziale -  non posso esimermi da una valutazione serena di altri provvedimenti dello stesso Governo.
In attesa di capire meglio la “legge di stabilità”, che sta al centro di tutto, mi sono applicato con pazienza alla lettura integrale delle proposte per la “buona scuola”, superando il disagio della retorica millenaristica (riferita ai 1000 giorni) del portale propagandistico governativo “passo dopo passo”.
Il testo sulla scuola – attualmente sottoposto ad apprezzabile pubblica consultazione (mi sono anche sobbarcato il questionario) - infatti mi sembra invece piuttosto serio, corposo e documentato, e ben leggibile, malgrado alcuni inutili anglicismi e un po’di vezzi da specialisti pedagogici.

La premessa del testo è che investire risorse sulla formazione sia decisivo per ridurre la disoccupazione: il che mi pare molto condivisibile se si intende che a medio termine la qualità delle risorse umane consente migliori prestazioni all’intero sistema/paese, meno condivisibile invece  se si vuole illudere gli studenti che a breve termine una migliore qualificazione possa garantire più occupazione non solo in singoli casi o specifici settori (e forse in un maggior capacità di auto-imprenditorialità), ma addirittura all’insieme dei giovani in cerca di lavoro (perché a mio avviso una migliore istruzione non riesce a modificare in pochi anni gli squilibri macro-economici in atto).

Il nocciolo della proposta governativa per una “buona scuola” consiste nella promessa di assunzione in ruolo di gran parte dei precari attualmente in servizio, per arrivare ad assegnare ad ogni scuola, sulla base dei fabbisogni (numero di alunni effettivi e tendenziali) un organico non risicato ma leggermente sovrabbondante, idoneo a riassorbire al suo interno distacchi funzionali (vice-presidi e tutors), “spezzoni” di cattedre, supplenze lunghe e brevi, e offerte didattiche integrative, rafforzando concretamente l’autonomia scolastica da diversi anni a vuoto proclamata e dando spazio a modulazioni più flessibili di classi ed orari.
Tali risorse dovrebbero consentire alle scuole anche di estendere gli orari di apertura delle scuole e di lezione (tempo pieno), di affrontare l’evasione scolastica, di progettare iniziative di educazione per gli adulti (in merito mi permetto di dubitare sull’automatico conseguire di tali progressi dal mero consolidamento degli organici).

I principali corollari della proposta (riassumendo in breve un documento di oltre 130 pagine) mi sembrano essere:
-          il superamento degli scatti automatici di anzianità (già scomparsi da decenni nel resto del pubblico impiego) con l’avvio di meccanismi di carriera più selettivi (pur sempre discutibili riguardo ai criteri di valutazione ed ai soggetti che dovranno attuarla, affiancando i dirigenti scolastici)
-          la determinazione in 2/3 della quota fissa, per ogni istituto, dei docenti che riceveranno gli aumenti a cadenza periodica, con l’ipotesi che tale limite costante (ed astratto e perciò poco accettabile) inneschi di per se un processo di concorrenza tra istituti, perché i docenti esclusi dagli “scatti” in una scuola “forte” (cioè con tanti professori con buoni curricula) sarebbero spinti a trasferirsi in una scuola “debole” per trovarvi maggiore fortuna (personalmente ci credo poco, perché molti altri sono i motivi di trasferimento o non-trasferimento delle persone, a fronte del solo incentivo degli “scatti” economici, e perché scuole con insegnanti “deboli”, premiati benché a basso punteggio, potrebbero risultare – ad esempio - le scuole socialmente difficili, e probabilmente non saranno comunque molto ambite);
-          l’approdo, dopo l’immissione ope legis degli attuali precari, ad un processo ordinario di reclutamento dei nuovi docenti tramite corsi-concorsi e tirocini guidati;
-          lo spostamento dell’asse culturale non solo verso la “modernità” (riassorbendo con altri nomi le tre I berlusconiane: Informatica, Impresa, Inglese) ma anche verso una maggiore “umanità”, con la triade Musica Arte Sport (in concreto però poche ore settimanali);
-          la conferma della volontà di confrontarsi con le imprese presenti sul territorio, per sperimentare maggiori esperienze di alternanza tra scuola e lavoro;
-          massicce dosi di trasparenza “on line” su tutto quanto sopra, a partire dai curricula dei docenti e dalle graduatorie delle nuove progressioni di carriera.

Oltre alle note in corsivo che ho sopra interposto, ritengo di esprimere le seguenti considerazioni, guardando anche a ciò che manca nel documento governativo (che comunque mi sembra una solida e positiva base di partenza) e che a mio avviso sarebbe necessario perché la scuola (e la società) diventino davvero migliori:
-          il segno complessivo della proposta si dovrà leggere misurando le risorse aggiuntive effettivamente assegnate alla scuola (nonché all’università e alla ricerca), tenendo conto dei tagli nel frattempo prospettati della Legge di Stabilità del medesimo Governo;
-          l’autonomia dei singoli istituti e delle nuove aggregazioni ipotizzate è positiva, ma a mio avviso insufficiente per aggredire gli storici ritardi della scuola italiana riguardo all’evasione e alla mancata elevazione dell’obbligo scolastico, che invece richiedono piani di interventi specifici, fondati sull’analisi dei bisogni (a partire dagli asili-nido, oggi classificati come “assistenza”)  e fortemente sostenuti dallo Stato e dagli Enti locali, con poderosi aiuti per il diritto allo studio dei meritevoli non abbienti, fino all’università (cioè un po’ oltre il “bonus bebè”);
-          le trasformazioni sociali ed antropologiche (cos’è l’adolescenza oggi?) dovrebbero suggerire un ripensamento radicale anche sui cicli didattici e sui programmi di studio, non solo aggiungendo materie, e assumere come primo obiettivo la formazione complessiva dei cittadini (non solo “Economia per tutti”, ma una vera educazione civica e soprattutto anche un po’ di filosofia per tutti, intesa come sviluppo delle capacità critiche personali a fronte dei “media” vecchi e nuovi e dei modi nuovi e antichi di sfruttamento);
-          personalmente non mi turba il rapporto con il mondo delle imprese, purché non sia a senso unico (e permetta quindi anche che scuola e territorio possano ingerirsi su ciò che fanno o non fanno  le imprese, escludendo una mera sudditanza ammirata) e riterrei educativa una sostanziosa esperienza di lavoro vero dentro al ciclo dell’obbligo, da elevare a 18 anni per tutti, aggiungendoci (con riferimento alla “educazione civica” di cui sopra) anche un periodo di servizio civile, sia in loco sia con scambi europei;

-          mi pare infine che andrebbe finalmente affrontato anche il tabù degli orari di lavoro dei docenti, lasciando invariate le ore di insegnamento “frontale”, ma inglobando tutte le altre prestazioni, da svolgersi a scuola (e non portando a casa i pacchetti di compiti da correggere), nell’ambito delle 36 ore settimanali comuni a  tutto il resto del pubblico impiego (fatti salvi, od ampliando, i contratti a tempo parziale).  

sabato 18 ottobre 2014

SBLOCCA ITALIA

Ho letto e apprezzato i rilievi di Legambiente sul decreto "Sblocca Italia", che mi sembrano assai ragionevoli, su bonifiche, petrolio, risparmio energetico, mobilità, ecc.
Su diversi temi convergono anche altre associazioni ambientaliste (WWF, Greenpeace, FAI, Italai Nostra).
Più pregiudiziale, ma pur sempre interessante, la posizione di "Salviamo-Il-Paesaggio"
Spero che il Parlamento possa intervenire, senza essere bloccato dalla morsa ostruzionismo/fiducia, e che il monopolio dell'ambientalismo non venga lasciato alla sterile propaganda, sempre elettoralistica. del M5S.

giovedì 9 ottobre 2014

DI NUOVO SUL (FU?) ART. 18

Mentre Renzi incassa la fiducia della Merkel sul Job Act prima di quella del Senato, osservo che nel metodo il circuito Fiducia/Delega risulta tanto elusivo della potestà parlamentare (potestà che nel frattempo si esplica pienamente al suo livello più basso nello stallo per l’elezione di 2 giudici costituzionali) quanto rappresentativo dell’insieme del Renzismo, che – tra primarie ed europee – ha chiesto ed ottenuto dagli elettori una delega in bianco su molte materie, esercitando a fondo il ricatto della mancanza di alternative (che è effettiva, e Letta agitava con minori energie) e ben guardandosi dal consultare la sua base elettorale nel merito delle scelte (come invece aveva promesso nelle primarie, proprio sul tema del lavoro: ora qualche consultazione – vedi scuola – la gestisce direttamente come Governo).

Renzi si sente forte dei sondaggi, sia sulla sua persona, sia riguardo all’art. 18, la cui difesa oggi sembrerebbe minoritaria nel paese, che invece anni addietro respinse sonoramente un referendum abrogativo proposto dai radicali: evidentemente anni di ideologia padronale (detta anche “pensiero unico”), ben affiancata dagli effetti della globalizzazione sul mercato del lavoro europeo (la “macro-fisica” del potere), sono riusciti ad incidere sull’opinione pubblica, ed anche su quella di centro-sinistra.
Dubito però che in tale ambito le posizioni si siano definitivamente rovesciate, ma è difficile verificarlo, stante la liquefazione del PD come organizzazione ed ambito di dibattito (inclusa la minoranza, che in teoria raccoglieva la maggioranza degli iscritti con le tessere 2013, ma è priva di strategia e di leadership, e nemmeno sa rinnovare le “sue tessere”, se non quando servono a cammellare voti in qualche congresso di sezione; né tanto meno raccogliere firme sulle sue proposte, anche on-line, così come a sostegno dell’evanescente referendum sul pareggio di bilancio) e finché la CGIL ed altri soggetti non assumeranno iniziative di mobilitazione, idonee ed efficaci (spero non l’occupazione delle fabbriche da parte di qualche avanguardia, cui ha accennato Landini; i precedenti non sono fausti: al biennio rosso 1919-21 seguì il ventennio nero, e all’occupazione della Fiat nel 1980 seguì la marcia dei 40.000 e corollari fino ad oggi influenti).

Infatti ritengo che tra astenuti, disillusi, elettori temporanei o definitivi del M5S, elettori fedeli alla sinistra che hanno ri-votato PD (o anche Tsipras) con il collo molto “obtorto”, ci sia una massa di persone, ed una realtà sociale frammentata ma non definitivamente dispersa, che alla lunga, comprimi-comprimi, ri-emergerà in forme forse nuove, e che mal digerisce le politiche oggettivamente di destra, soprattutto se non sono presentate come necessario compromesso, dati i rapporti di forza internazionali, ma rivendicate (non solo da Renzi, vedi recente intervista di Fassino alla Stampa) come “moderno modo di essere di sinistra”, e cioè ad esempio:
-      -    La retorica del merito e del talento, che poi si traduce solo nella facilità di licenziare, perché nella pratica di governo non vedo né nuove borse di studio per studenti e neo-laureati meritevoli, né selezioni pubbliche ai posti di comando, né tanto meno l’abbandono della selezione correntizia del personale politico (qualcosa di meglio forse sta nel documento sulla scuola, che mi riservo di commentare quando sarò meno esacerbato sull’art. 18);
-       -   La balla che bisogna poter licenziare, anche individualmente, perché i padroni locali e gli investitori internazionali si decidano ad investire;
-     -  Il precariato come colpa dei sindacati, che per me assomiglia molto a quei mariti che incolpano la moglie se la poveretta viene cornificata: “dov’erano i sindacati?” certo non al governo, dove se non c’era Berlusconi, con Maroni e Sacconi,  c’era Treu, e poi Bassolino-Salvi ed infine Damiano (l’unico che ha cercato di correggere la baracca) (e qualcuno potrebbe anche chiedere dov’era il giovane Renzi: non mi pare si opponesse a quella linea, né come Scout, né come DC/Popolare, né come Margherito ed infine PD);
-     - Tutta la propaganda sul “cambiare verso” e il “nuovo che avanza”, dimenticando antiche priorità come la lotta all’evasione fiscale, al lavoro in nero, alla corruzione, alla “imprendibilità” del finanz-capitalismo internazionale.  

Tornando infine al merito della riforma del lavoro, la delega è volutamente piuttosto vaga, ed è stata parzialmente emendata, ma conferma l’intenzione politica di ridurre le tutele per i licenziamenti individuali (ed altre intenzioni invece potenzialmente positive sugli ammortizzatori sociali, i contratti di inserimento e la detassazione sul lavoro stabile): si dovranno valutare attentamente i decreti delegati e le coperture finanziarie connesse. 
Permane ai vertici del governo e tra molti commentatori una grave sottovalutazione dell’importanza delle tutele vigenti, sia pure  per i soli lavoratori stabili nelle aziende superiori a 15 dipendenti (tuttora la maggioranza dei lavoratori dipendenti), anche se sono relativamente pochi i casi di applicazione del reintegro nel posto di lavoro: il potenziale intervento del giudice del lavoro è un deterrente, fondamentale nella “microfisica del potere” a scala aziendale, dove chi è forte è il padrone e non il singolo lavoratore.
Scardinare o anche solo attenuare e manipolare tali tutele (già ridotte dalla legge Fornero) influisce sull’insieme dei rapporti di lavoro (e non solo per i soggetti direttamente tutelati).
(Se poi ci si mette anche a depotenziare i contratti nazionali si andrà rapidamente ad una ulteriore compressione dei salari, già oggi molto risicati).

In proposito vorrei proporre un’analogia con la legge del 1978 sull’equo canone (non posso autocitarmi perché il mio archivio cartaceo di quegli anni si è perduto nella muffa delle cantine, con dentro anche un mio breve testo sulla “micro-fisica del potere tra padrone di casa e inquilino), allorché parte della sinistra si batté a lungo sulla percentuale che i nuovi affitti dovevano pagare sul valore locativo degli alloggi (il 3% sembrava di sinistra, il 4% di destra, ed il governo Andreotti chiuse al 3,85%), mentre la sostanziale sconfitta degli inquilini stava nella generalizzata possibilità di sfratto per “finita locazione” (cioè i contratti diventavano temporanei, superando il blocco dei fitti non solo in termini economici ma soprattutto giuridico-temporali).

Mentre il blocco dei fitti aveva spinto verso l’alto i canoni dei nuovi contratti, l’equo canone così concepito ha spinto tutti coloro che hanno potuto a comprarsi una casa (sfuggendo almeno su questo fronte alla precarietà della vita) ed ha proiettato verso l’alto il  valore degli affitti sugli alloggi restanti (e l’equo canone chi se lo ricorda più?).