-
“uno sviluppo urbano tale da ridurre
i trasporti (privati) e rilocalizzare le attività;
-
il rilancio dell’agricoltura
contadina;
-
la trasformazione degli incrementi di
produttività in riduzione dei tempi di lavoro ed in crescita dell’occupazione;
-
il rilancio della produzione di “beni
relazionali”;
-
la riduzione degli sprechi di
energia;
-
la riduzione del ruolo della
pubblicità;
-
il ri-orientamento della ricerca tecnica e scientifica;
-
la protezione dallo scambio ineguale
delle attività economiche minori tramite “monete locali” e “monete
complementari”.
In questo elenco – tranne forse
sull’ultimo punto, più originale e più nebuloso - credo possano riconoscersi in
larga misura anche tutti i sostenitori delle più tradizionali concezioni dello
sviluppo sostenibile (es. carta di Aalborg del 1994, e Aalborg commitments del
2004) : si sbagliano, perché questo insieme di misure comporta necessariamente
la decrescita?
Dove sta la specificità della
proposta della decrescita felice, recentemente ribattezzata “dell’abbondanza
frugale” (andando oltre la formulazione piuttosto autarchico-solipsista e
passatista esposta da Maurizio Pallante - Pallante
2011)?
Latouche
articola la “strategia” essenzialmente in due ambiti:
-
quello
africano, o terzo-mondista, dove in sostanza non si ha nulla da perdere e tutto
da guadagnare in una rapida “fuori-uscita dallo sviluppo”, anche approfittando
dell’attuale crisi come favorevole occasione
-
quello
euro-occidentale in cui più è difficile la disintossicazione dai falsi bisogni
e dove quindi si ipotizza un lungo percorso verso la de-mercificazione, da un
lato tramite la battaglia culturale per cambiare l’immaginario collettivo, e da
un altro lato tramite la sperimentazione di
“alleanze” con “le imprese miste”, gli alter-mondisti e i sostenitori
dell’economia solidale.
La proposta, comunque poco
articolata riguardo alla operatività concreta per le città occidentali, risulta
più chiara nella sua parte analitica e critica sugli eccessi del consumismo e
sui paradossi della “crescita” del PIL e francamente ancora piuttosto oscura
nei suoi sviluppi propositivi,
perché non spiega quali soggetti,
muovendosi dalle proprie idee oppure anche dai propri interessi, possano riuscire
a conseguire un progressivo consenso maggioritario, nelle aree attualmente
sviluppate, in favore della “decrescita felice”, né tanto meno quali siano le
possibili tappe intermedie, ragionevolmente equilibrate, di tale processo.
E neppure ipotizza esplicitamente
che la sottrazione delle aree terzo-mondiali più sfruttate dal circuito dello
sviluppo possa accentuarne la crisi producendo squilibri forse drammatici, ma
potenzialmente a lieto fine.
In assenza di una esplicita
teorizzazione di possibili fasi di rotture catastrofiche dell’attuale sistema
sviluppista, da gestire con segno alternativo, oppure direttamente
rivoluzionarie, ne risulta una sorta di “riformismo estremista”, ma con un
orizzonte senza tempo, e soprattutto senza specificazioni riguardo alle
modalità felici di accettazione della decrescita da parte dei popoli più
“sviluppati”, se non attraverso l’auspicio di uno spontaneo mutamento dei
paradigmi culturali dalla competizione alla collaborazione.
Nel più recente saggio “Per un’abbondanza frugale” (Latouche 2012), Latouche cerca – con risultati a mio avviso poco
risolutivi - di dimostrare la compatibilità della decrescita sia con il
capitalismo che con la democrazia, e l’inutilità di una ricerca dei “soggetti
sociali protagonisti”, affidandosi invece alla sola crescita culturale degli
“individui”.PER UN INQUADRAMENTO PIU' AMPIO, VEDI ANCHE, IN QUESTO BLOG, "PAGINE - PARTE 2^" E "BIBLIOGRAFIA"
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