Si
cimenta con l’utopia anche Alberto Magnaghi, in “Il progetto locale” Magnaghi 2000 e
2010, ma nel
senso di una visione di nuovi rapporti complessivi tra globale e locale, città
e campagna, produzione e consumo, utili per facilitare la partecipazione e la
crescita dei progetti locali di sviluppo auto-sostenibile.
Nel
volume, difficile da riassumere, benché breve, perché denso e problematico, più
delle visioni utopiche risultano interessanti le analisi e le riflessioni
dialettiche aperte.
Mettendo
in guardia da approcci scorretti alla sostenibilità, quali:
-
l’approccio
funzionalista, che subordina le mitigazioni ambientali alle tendenze del
mercato globalizzato, in una continua rincorsa inefficace - l’approccio ambientalista “bio-centrico”, che assume la natura “come soggetto vivente dotato di anima” (vedi "PAGIEN, PARTE 1^"), ma non può giustificare scientificamente l’interpretazione umana dei mutevoli equilibri naturali e rischi o di dimenticare il sistema antropico, oppure di perdersi in battaglie settoriali,
- (ed anche l’approccio proceduralista, che punta sulla partecipazione senza indicare contenuti, e quello realista-rinunciatario di chi “trova ritmi musicali nella città diffusa” – VEDI POST sugli esploratori della città diffusa),
Magnaghi
contrappone l’approccio “territorialista o antropo-bio-centrico”, fondato su
una lettura del territorio (antropizzato) come palinsesto storico di lunga
durata, patrimonio di valori che vanno oltre quelli di scambio ed anche quelli
di uso delle generazioni presenti (ma pur sempre solo da queste possono essere
interpretati e tutelati).
Per
Magnaghi la città-fabbrica fordista e la successiva metropolizzazione
globalista costituiscono un processo
negativo di de-territorializzazione: massimizzazione del profitto a breve
termina indipendentemente ed in danno dei valori peculiari dei luoghi, con
progressivo impoverimento dell’ambiente naturale ed antropico.
Arrivando
a definire il territorio “come soggetto
vivente vivente ad alta complessità”, Magnaghi però si preoccupa ampliamente di
individuare nelle “tensioni, comportamenti, culture brulicanti” nella e contro
la globalizzazione i possibili soggetti
sociali concretamente coinvolgibili nella costruzione, dal basso, di
alternative fondate sulla “ri-territorializzazione”, progetti locali di
sviluppo auto-sostenibile, da collegare in nuove reti “non gerarchiche”:
agricoltori, artigiani, commercianti e altri lavoratori autonomi e
micro-imprese, volontariato e terzo settore, abitanti e consumatori che
intendono sottrarsi alle nuove povertà derivanti dal degrado metropolitano; e
le loro aggregazioni locali, neo-municipali (da sottrarre al localismo
identitario di tipo chiuso e “triste”).
Il
testo articola il concetto del “progetto locale” a partire dallo Statuto dei
Luoghi, in una concezione più amplia e radicale di quella enunciata dalla Legge
Urbanistica Regionale Toscana, nei suoi aspetti conoscitivi, aggregativi,
normativi, che attraversano la produzione, i consumi, la chiusura “breve” dei
cicli ecologici, e gli insediamenti, compresa la crescita culturale verso un
controllo comunitario delle tipologie edilizie e della qualità architettonica; senza escludere un ragionevole consumo di
suolo, qualora coerente con il “codice genetico” ovvero con le regole
insediative del luogo.
Magnaghi
non prospetta successi lineari né automatici, e neppure orizzonti messianici o
rivoluzionari, in questa contrapposizione “lillipuziana” alla globalizzazione
ed alla sua endemica crisi ‘di ambientazione’; egli stesso si pone infatti le
seguenti domande, cui risponde in modo aperto e dialettico:
-
è
possibile una globalizzazione dal basso? a quali condizioni?- che ruolo possono svolgere le autonomie municipali europee? come si pone il dialogo con le esperienze anti-globalizzazione del terzo mondo?
- è pensabile una più alta “produttività” dei nuovi modelli insediativi legati in reti non-gerarchiche, anziché la ricaduta nello schema centro-periferico?
A fronte di questa prospettiva
complessa e affascinante, mi sembra però opportuno esplicitare ulteriori
problemi, cui Magnaghi in parte accenna, ma forse sottovalutandoli:
- le tendenze in atto, misurate
ad esempio da Manuel Castells Castells 2000
(in confronto con numerosi altri autori di ricerche – vedi POST), non
solo verso una ulteriore espansione delle metropoli, sia nella regioni
sviluppate che in quelle meno sviluppate, ma anche, complessivamente (per il
peso delle aree di nuove industrializzazione), all’incremento percentuale del
lavoro salariato, sia pure in forme contrattuali più frammentate, ed alla
limitazione ai paesi sviluppati dei fenomeni di maggiore articolazione dei
rapporti di lavoro;- le resistenze e alternative locali alla globalizzazione e de-territorializzazione rischiano pertanto di essere fenomeni di nicchia, e non bastano le parole per distinguere il localismo aperto da quello reazionario e xenofobo;
- la spinta alla competitività, sia in mercato locale che globale, connota comunque la micro-impresa, ed alimenta i conflitti tra soggetti forti e deboli dentro alle “comunità” locali; la dimensione locale può favorire chiusure corporative a danno dei soggetti deboli (es. lavoratori dipendenti);
- non si intravvedono strumenti certi per dare voce ai “soggetti silenti” nei processi di partecipazione;
- affidare alle forze neo-municipali il successo di progetti dal basso su “come, quanto e dove quali attività produttive insediare”, in Europa si scontra con il dogma ed il diritto della “libertà di impresa”, che forse può essere più facilmente compressa ed indirizzata ad obiettivi di riequilibrio ambientale e socio-economico (green economy) con una riconversione democratica dei poteri statali e comunitari (certamente sulla spinta delle nuove esperienze locali), rendendo intelligente l’enorme leva della tassazione e della spesa pubblica (in Europa vicina alla metà del PIL), nella direzione finora teorica o minoritaria della TOBIN TAX e della CARBON TAX (vedi successiva parte Quarta): il riformismo necessario è piuttosto radicale che “continuista”, ma questo è vero sia nell’approccio dal basso, dove i movimenti molecolari rischiano di non concretizzarsi in mutamenti stabili e profondi, sia in quello dall’alto, che è meno probabile e reso difficoltoso anche dalla evanescenza dei poteri statali a fronte della globalizzazione finanziaria: merita forse di essere meglio valutata l’integrazione tra i due approcci (vedi POST E PAGINE).
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