Un
limite delle posizioni teoriche dell’Urbanistica Riformista di Campos Venuti e
Oliva, anche se più varia è la prassi, e vivace l’attenzione culturale dell’INU
da loro guidato (vedi le riviste dell’Istituto, ed anche il convegno di Genova
nel 2006 sul ‘Progetto urbano’), è la separazione tra pianificazione e architettura urbana: la
giusta considerazione sulla inefficacia dei Piani Regolatori Generali
“disegnati” e la coerente separazione tra Piani Strutturali e Piani
Operativi rischia di impoverire ambedue
i livelli riguardo alla necessaria attenzione alla ‘forma’ della città e di
delegare tutte le scelte tipologiche e morfologiche, relative ai fabbricati ed
agli spazi pubblici, al momento della progettazione architettonica, isolata dal
dibattito generale sulla trasformazione urbana, e quindi alla
auto-referenzialità degli architetti ed all’impronta costruttiva dei
committenti (immobiliaristi, imprese, singoli privati).
Il
tema sembrerebbe non riguardare strettamente la sostenibilità, mentre a mio
avviso è centrale per cercare di perseguire una effettiva vivibilità collettiva
degli spazi urbani, e quindi valori culturali e sociali che sono però anche
ambientali (paesaggio urbano, qualità edilizia, qualità della vita) ed
economici (efficacia della densificazione, successo della mobilità ‘dolce’,
costi e benefici delle aree ed attrezzature ad uso collettivo).
Lo
affronta con brillante esposizione Graziella Tonon con l’articolo “Urbanistica
e architettura: un rapporto da rinnovare”, Tonon
2011, che è
però limitato dall’orizzonte, pur importante, dell’insegnamento nelle facoltà
di Architettura e di Pianificazione, mentre Giancarlo Consonni, nel testo “La
difficile arte. Fare città nell’era della metropoli” Consonni 2008 articola in modo più completo
la proposta di una diversa urbanistica che divenga architettura della città:
-
sia
nella lettura della genesi storica della metropoli contemporanea (a partire
dagli opposti caratteri della città antica e medioevale, e dallo sviluppo e
crisi della città industriale) e dei limiti della risposta che architetti e
urbanisti del “movimento moderno” fanno dato ai problemi della modernità (con
Jane Jacobs e Ildefonso Cerdà – tra gli altri - contro il Le Corbusier teorico
dei CIAM ed i suoi epigoni, e soprattutto contro i contemporanei cantori della
bellezza del caos e del frammento, tipo Koolhaas): schematicamente si può
riassumere che per Consonni la metropoli
contemporanea tende a innestare contenitori isolati (architettura dei bunker)
su una ipertrofica rete di trasporti e comunicazioni, finendo per consumare,
con lo sprawl, non solo lo spazio (frammentato e disperso dalle reti), ma
anche il tempo (spostamenti obbligati su lunghe distanze, congestione),
degradando la campagna e disperdendo gli spazi della socialità, della
convivenza tra diversi e della conseguente sicurezza spontanea, surrogata dalla
segregazione e “militarizzazione”;
-
sia
nella formulazione di criteri alternativi per la progettazione, come “luoghi” a
misura d’uomo degli spazi urbani e
paesaggistici, valorizzando la complessità dei “contesti” (cum-texere: operare
su tessuti storicamente stratificati, polimorfi e polifonici), spaziando, con ampia
competenza letteraria e poetica (vedi soprattutto il cap. “L’ospitalità dei
luoghi – la riconquista possibile”)
anche sui campi attigui delle altre arti: danza, teatro, romanzo,
musica: secondo Consonni (se mi è possibile riassumere in breve prosa una
poetica espressa in linguaggio letterario alto) è necessario e possibile
ricreare, anche nella modernità, isole urbane a misura pedonale, orientate alla
liberazione del tempo, riconfigurandone la stratificazione diacronica con la
progettazione di nuovi spazi di relazione (archetipo della “radura” e
ripristino di corretti rapporti tra cielo e terra, tra verticale e orizzontale)
e collegandole con “strade vitali”; contro l’isolamento estremizzato di tecnica
(funzionalismo), natura (illusione della città giardino) e storia (mimesi
stilistica), occorre trovare l’equilibrio tra opposte polarità, quali artificio/natura,
ordine/complessità, aperto/chiuso, moto/quiete (ecc.), riscoprendo - nella
massima attenzione alla dimensione sociale (necessità che la VAS sia
“Valutazione Sociale Strategica) - altri archetipi progettuali, tra urbanistica
ed architettura: la soglia, la penombra, l’interferenza, la permeabilità.
Le riflessioni e proposte di Tonon e Consonni non sono scevre dalla consapevolezza delle ragioni strutturali della crisi della città e delle dominanti socio-economiche (con frequenti riferimenti a Mc Luhan) ed anche ideologico-culturali (il “nemico … non sta solo fuori di noi …: è la diffusa perdita di senso”; mentre outlets, centri commerciali e cinema multi-sale godono di un effettivo successo di massa), che rendono difficile l’immane compito di “civilizzare” la metropoli contemporanea.
Ma gli autori
sembrano concentrati soprattutto ad un approccio intellettuale, sia ‘dall’alto’
(interessanti considerazioni, e suggerimenti ai legislatori, sui limiti
concettuali della attuale legislazione sul suolo, ridotto a concetto
catastale-geometrico, e sulla mancanza di relazioni tra “beni paesaggistici” e
“beni culturali”, e cioè di attenzioni ai luoghi, ai tessuti e per l’appunto
alle stesse “relazioni” tra i diversi elementi di interesse), sia ‘dal basso’,
ma limitatamente ad una battaglia per culturale per “addetti ai lavori”,
progettisti e amministratori, senza una prospettiva di articolazione strategica
dei modi e dei mezzi, dei soggetti e delle alleanze, per avvicinarsi alla
rifondazione urbana e paesaggistica auspicata (e dichiarata, ma non dimostrata,
necessaria e possibile).
Valgono quindi, a
maggior ragione, le domande poste nel precedente paragrafo all’Urbanistica
Riformista.
Ho scelto di commentare
Tonon e Consonni (oltre che per personale simpatia ed antica vicinanza
studentesca), per il peculiare fascino della loro scrittura, ma è doveroso
segnalare che analoghe proposte orientate alla qualità urbana della città
compatta sono avanzate in Italia, da diverse altre scuole (vedi ad esempio AAVV-Dal Pozzolo 2002, Giovannini
2009, AAVV-Colarossi e Latini2009) e che a simili
attenzioni si perviene anche attraverso i ragionamenti eretici di Marco Romano Romano 2004 , nonché – a mio
avviso – seguendo gli esiti meno formalistici e auto-referenziali della scuola
di Aldo Rossi e della sua “Architettura della Città” Rossi 1965 (meno
meccanicista nella parte propositiva della “analisi urbana” di Muratori e
Caniggia, ritenuta da Consonni inadeguata a descrivere “le manifestazioni
mature della metropoli contemporanea” Caniggia
e Maffei 1979 ).
AGGIORNAMENTO GENNAIO 2014
Nel numero 150-151 di "Urbanisitca", il contributo teorico di Ennio Nonni sulla “bio-urbanistica” (qualcosa di molto diverso dalla sommatoria di tante bio-architetture), cerca di abbracciare in uno stesso discorso le metropoli dei paesi ricchi (che consumano suolo per l’irrazionalità delle espansioni periferiche a volumi isolati oppure a villette, ma garantiscono servizi e spazi pubblici) e quelle dei paesi poveri (che si espandono per l’inarrestabile migrazioni nelle baraccopoli) e – valutando comunque criticamente la praticabilità dell’obiettivo del risparmio di suolo a fronte della pressione migratoria, che non è esclusa neanche per le città del mondo ricco – propone di perseguirlo, nella nostra realtà, sostituendo le periferie esistenti con organismi urbani compatti ed integrati (simili ai nostri “centri storici” ma anche all’urbanità che esprimono le stesse favelas); la proposta mi sembra convergente con quelle che ho riepilogato come “architettura della città”, e mi pare presenti – come le altre da me ivi riepilogate – un sostanziale difetto, e cioè di non spiegare come si può conseguire tale indirizzo, nelle nostre società, in termini di consenso antropologico (ancor prima che politico e di mercato).
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